Jody Williams, Nobel per la pace: «In Ucraina donne al fronte solo per scelta»

Jody Williams, Nobel per la pace: «In Ucraina donne al fronte solo per scelta»
di Anna Guaita
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Mercoledì 23 Marzo 2022, 12:14 - Ultimo aggiornamento: 24 Marzo, 09:08

Mentre studiava politica internazionale, negli anni Ottanta, Jody Williams cominciò a occuparsi del Salvador dilaniato dalla guerra civile.

Scioccata dalla violenza delle mine antiuomo, largamente usate, si dedicò a trovare arti artificiali per i bambini rimasti senza braccia o gambe. E da quel momento ha deciso di continuare a combattere contro la violenza e in difesa dei diritti dei più deboli. Quando nel 1997 Williams ricevette il premio Nobel per il suo impegno contro le mine, il mondo sembrava desideroso di pace, dopo la fine della Guerra Fredda e le cruente guerre dei Balcani. Ma se la pace si è invece rivelata più che mai lontana, Williams non ha mai smesso di inseguirla, sia con l’impegno in prima persona, sia fondando l’organizzazione “Nobel Women’s Initiative”, che riunisce le donne come lei vincitrici del Nobel. Oggi docente di “Pace e Giustizia Sociale” all’Università di Houston, Williams è anche stata nominata, in questi giorni, presidente della “Fondazione Città della Pace per i Bambini”, in Basilicata, dove già si sta lavorando per sostenere i profughi in arrivo dall’Ucraina.

Nella sua lotta contro le mine antiuomo lei ha sicuramente negoziato con persone e situazioni difficili. Che consiglio darebbe alle parti in guerra in questo momento?

«L’unica via d’uscita è un cessate il fuoco e l’immediato ritiro delle forze russe dall’Ucraina. Ma ho anche paura che sia irreale pensare a un ritiro, a meno che la Russia non sia sconfitta. Quello di cui sono sicura è che gli alleati dell’Ucraina debbono mantenere la pressione sulla Russia e obbligarla al tavolo del negoziato. Questa è una situazione unica, perché Putin non ha solo invaso l’Ucraina, ma sta anche sforzandosi di distruggerla. E per di più ha la temerarietà di minacciare coloro che aiutano il Paese a difendersi. Siamo davanti a un caso di megalomania senza controllo, mi chiedo se Putin non sia pronto a distruggere l’intero pianeta se non gli riesce di ricostruire una Russia pre-1991».

Professoressa, questa guerra è stata discussa, decisa, e ora viene combattuta principalmente dagli uomini. Lei pensa che le donne dovrebbero combattere, come ha suggerito la moglie del presidente Zelensky?

«Non vorrei vedere nessuno combattere in una guerra. Ma comunque le donne hanno sempre avuto un ruolo nei conflitti, pensiamo alle regine guerriere nella storia. Se le donne vogliono combattere è una loro scelta e non sta agli uomini decidere cosa sia appropriato per loro. E poi gli uomini non stanno proteggendo le donne in questo caso, stanno proteggendo il loro potere sul mondo».

Ma se invece di Zelensky e Putin ci fossero state due donne, adesso avremmo questa guerra?

«Dipenderebbe completamente dalle donne al potere.

Le cose cambiano, ma molto lentamente. Pensi a Margaret Thatcher che ha portato la guerra nelle Falklands. Non era diventata una politica perché voleva cambiare il sistema dominato dall’uomo, ma perché condivideva quel sistema».

Lei ha personalmente combattuto a lungo per il disarmo e ora vediamo un’Europa che viene armata con armi di tutti i tipi. Stiamo facendo marcia indietro?

«Certamente questo non è un momento di progresso per il disarmo, e anzi la velata minaccia di Putin di ricorrere alle armi nucleari nella sua aggressione contro l’Ucraina ha provato nella mente dei “falchi” la necessità di conservare e rafforzare le armi nucleari. Ma pensate un attimo al ridicolo ammonimento francese a Putin che anche la Nato ha armi nucleari! L’industria di guerra - quelli che disegnano, sviluppano e producono armi - non ha nessun interesse a favorire un disarmo. Continua a crearne di nuove, più letali, disinteressandosi di quello che le armi fanno alle persone, della violenza e della guerra. Far soldi è più importante che proteggere l’umanità».

Stiamo anche assistendo a un ritorno della guerra fisica, quando negli ultimi anni abbiamo visto specialmente da parte delle forze americane un ricorso ad armi più “asettiche”, come i droni pilotati da migliaia di chilometri di distanza.

«Le guerre fisiche non sono mai finite. La differenza in questo caso è che la guerra è nel cuore dell’Occidente. E, sì è vero che i droni appaiono asettici, e che hanno attirato l’attenzione di tutto il mondo, ma le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq sono state condotte da soldati americani e occidentali al fronte. L’unica differenza è che erano laggiù, molto lontano».

Come pensa che finirà tutto questo?

«Impossibile predire come finirà. La Russia sta commettendo crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Idealmente, indipendentemente da chi vincerà, dovrebbe accollarsi il costo della ricostruzione. Ma questo è un sogno, non la realtà. Temo che sia molto più verosimile che sarà l’Occidente che aiuterà a ricostruire il Paese».

Le generazioni più giovani non conoscono la guerra. Almeno nell’Occidente l’hanno solo vista nei videogiochi. Come supereranno lo shock di queste immagini cruente e reali?

«È importante che i giovani di tutto il mondo, ma in fondo le persone di tutte le età, abbiano risposto in numero sconfinato alla guerra di aggressione di Putin. E le proteste continuano. Mi sembra che più di 200.000 persone siano fuggite dalla Russia come reazione all’invasione dell’Ucraina. Le foto sono scioccanti. Ma la mia risposta è sempre una, fondamentale: quando ci troviamo davanti all’orrore della violenza dobbiamo reagire dando un supporto alle vittime, e in questo caso dobbiamo aiutare la gente dell’Ucraina. Per superare la violenza, avremmo bisogno di una “Greta Thunberg per la pace”. I giovani però non bastano, il cambiamento richiede che agiamo tutti, e insieme».

Lei è appena diventata presidente della città della pace in Basilicata. Accoglierà i profughi dall’Ucraina?

«La città della pace ha già deciso di mobilitarsi a favore dell’Ucraina. E non è un caso. Ha anni di esperienza nell’affrontare e aiutare a lenire il trauma di chi sia diventato un rifugiato».

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