Jill Ambranson, la prima donna a dirigere il New York Times: «Scoop sul digitale, approfondimenti sul cartaceo»

Jill Ambranson, la prima donna a dirigere il New York Times: «Scoop sul digitale, approfondimenti sul cartaceo»
di Flavio Pompetti
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Mercoledì 28 Settembre 2022, 15:15 - Ultimo aggiornamento: 24 Febbraio, 13:03

Ha visto passare davanti ai suoi occhi il tracollo delle grandi catene statunitensi dei quotidiani locali, e di molti giganti dell’informazione.

Ha assistito al crollo dei ricavi pubblicitari e al disamoramento del pubblico per l’acquisto giornaliero in edicola, e allo stesso tempo ha visto nascere ed affermarsi il nuovo modello dell’informazione digitale. E mentre si verificava questa rivoluzione epocale, a cavallo tra la fine del secolo scorso e i primi quindici anni di quello in corso, a Jill Abramson è toccato di sedere in primissima fila, nel giornale forse più paludato al mondo: il New York Times, nel quale ha lavorato in veste di corrispondente da Washington per poi divenire la prima donna della storia del quotidiano a sedere sulla poltrona di direttrice. Questa esperienza è finita in un libro, pubblicato in Italia da Sellerio con il titolo Mercanti di verità, nel quale la giornalista racconta come questo scontro ciclopico tra vecchio e nuovo, due forze gigantesche che si preannunciavano come antagonisti mortali, si sia risolto nel lungo termine almeno negli Stati Uniti, in una sorta di compenetrazione delle due piattaforme di informazione, nella quale le grandi testate tradizionali sopravvissute alla decimazione e le nuove testate digitali in crescita esponenziale si sono scambiati i caratteri salienti dell’uno e dell’altro, e stanno prosperando con identità rinnovate. La giornalista sarà a Firenze la terza settimana di ottobre per partecipare alla quinta edizione della rassegna “L’eredità delle Donne”, dove racconterà l’esperienza della quale è stata protagonista. Abramson, oggi professoressa di giornalismo alla Harvard University, ha accettato di anticipare a MoltoDonna i temi del suo intervento.

Se fosse oggi una giovane ventenne, cosa cambierebbe del suo percorso professionale?

«Non cambierei nulla, a cominciare dalla scelta di perseguire la carriera da giornalista, che è uno dei lavori più belli ai quali si possa ambire. Ho cominciato a lavorare quasi cinquanta anni fa come giornalista d’inchiesta. Oggi, alla fine del processo di trasformazione tumultuoso che abbiamo quasi alle spalle, questa specialità è una delle poche che è sopravvissuta intatta. Saper scavare in profondità nelle storie in cerca di contraddizioni e di verità è una specialità apprezzata e ben pagata oggi come lo era in passato». 

Lei ha scritto che i grandi giornali statunitensi erano totalmente impreparati ad affrontare la sfida con la digitalizzazione dell’informazione.

«Nessuno aveva anticipato la rapidità con la quale i siti web sarebbero riusciti a portare il pubblico a conoscenza delle notizie.

Per questo in un primo momento i direttori dei grandi giornali avevano pensato che le pagine web delle loro testate potessero essere una duplicazione del giornale, alle quali inviare materiale di seconda mano. Nella fase iniziale le sedi digitali del New York Times e del Washington Post erano addirittura distaccate da quelle cartacee, a riflesso di un certo fastidio che la convivenza provocava». 

Qual è oggi il punto di equilibrio tra le due forme mediatiche?

«Le versioni digitali hanno preso il sopravvento, almeno per quanto riguarda la priorità di pubblicazione. Quando un articolo è scritto e corretto dai redattori, esordisce sulla pagina web, dove ancora gioca la regola dello scoop, della visibilità immediata e di larga scala. Il giornale è la struttura che permette di produrre le storie di maggior successo, e anche quelle più profonde, che richiedono un maggiore impegno. Il quotidiano si è potenziato nell’organico, e dal web genera la nuova forma dell’indipendenza: gli abbonamenti pagati dai lettori. L’ultimo vantaggio della transizione è la progressiva eliminazione della pubblicità commerciale come fonte di fatturato. Il suo tramonto aggiunge libertà di manovra al lavoro dei giornalisti». 

Essere la prima donna a dirigere il New York Times le ha attirato addosso più consenso o più ostacoli dentro il quotidiano?

«Non mi sono mai sentita una pioniera, una meteora che sfonda la sfera di cristallo. Se sono arrivata su quella poltrona è perché alle spalle avevo una valanga di donne che erano già entrate in posizioni di rilievo, nei quotidiani così come nelle reti televisive; e poi nella magistratura, nella politica locale e nazionale degli Stati Uniti. La redazione del Times era pronta al passaggio perché la strada era stata aperta da tante mie colleghe che mi avevano preceduto».  

I social media che hanno dominato la scena mediatica su Internet stanno soffrendo oggi un calo generalizzato delle utenze. Stanno forse passando di moda?

«Io mi auguro che riflettano, o che chi ne ha il potere li costringa a farlo, sul grado di polarizzazione dell’opinione pubblica che hanno generato con la rincorsa a fidelizzare i propri lettori. Questo è un vicolo cieco, che alla fine produce solo assuefazione e stanchezza». 

Nelle aule universitarie dove lavora oggi sente la mancanza di una redazione, e del brivido della pista di un’inchiesta da seguire?

«Cerco di trasmettere la fascinazione ai miei allievi. Con una raccomandazione però: le inchieste oggi si infrangono contro le corazze di poteri che hanno imparato come sopravvivere alla esposizione mediatica. Per questo anche la scoperta di scandali sconvolgenti lascia i lettori in uno stato di frustrazione perenne, per via della realtà che non cambia. C’è bisogno di una nuova cultura dell’inchiesta, che miri a trovare soluzioni ai problemi più cogenti della nostra società, e non limitarsi a denunciare quello che non va».

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