Nato, Irene Fellin: «Più donne al lavoro per la pace. L'Alleanza atlantica è pronta per una segretaria generale»

Nato, Irene Fellin: «Più donne al lavoro per la pace. L'Alleanza atlantica è pronta per una segretaria generale»
di Gabriele Rosana
5 Minuti di Lettura
Mercoledì 27 Luglio 2022, 12:27 - Ultimo aggiornamento: 23 Febbraio, 22:27

«Le più giovani ci guardano: è difficile diventare ciò che non vedi. Ecco perché serve dare il giusto spazio alle leader in un contesto ancora a trazione maschile».

Da inizio anno rappresentante speciale del segretario generale della Nato per “Women, peace and security", Irene Fellin è l’italiana di più alto rango ai vertici dell’Alleanza Atlantica, e pure la prima esponente di un Paese mediterraneo in un ruolo che, sin dalla sua creazione, è stato sempre appannaggio del Nord Europa e della sfera anglosassone.

È da questa postazione, nel quartier generale Nato alla periferia di Bruxelles, che continua l’impegno in prima persona per i diritti delle donne e l’uguaglianza di genere iniziato molti anni fa, nella società civile, con la fondazione nel 2016 a Roma del ramo italiano di “Women in International Security” (Wiis) e poi con il coordinamento del “Mediterranean Women Mediators Network”, rete di donne mediatrici nell’area del Mediterraneo.

In cosa consiste il suo lavoro?

«Alla Nato mi occupo di tutto ciò che è legato alle persone, quindi alla popolazione civile, e soprattutto alle donne in situazione di conflitto armato. In senso più ampio, sono responsabile del dipartimento di Sicurezza umana, che tratta temi come protezione dei civili e del patrimonio culturale, traffico di esseri umani, bambini coinvolti nei conflitti armati. In particolare, sono la figura di riferimento per far sì che in tutto ciò che la Nato fa, sia in ambito civile sia militare, venga inclusa una prospettiva di genere in linea con i valori che ci caratterizzano».

Quali sono i suoi obiettivi concreti?

«Il mio obiettivo è contribuire a una trasformazione culturale e politica della società che cominci nelle nostre case, continui sui luoghi di lavoro e culmini nell’adozione di politiche pubbliche. La mia stella polare è la risoluzione 1325 del 2000 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che più di vent’anni fa fece da apripista nell’introduzione dell’approccio di genere nel settore peace & security attraverso due messaggi principali. Da una parte, il riconoscimento che i conflitti hanno un impatto diverso su uomini e donne ricoprendo ruoli diversi nella società e queste ultime sono colpite in maniera sproporzionata; basti pensare all’uso degli stupri e delle gravidanze forzate come tattica di guerra e arma di pulizia etnica. Dall’altra, noi donne rappresentiamo metà della popolazione mondiale, eppure siamo ancora un potenziale fondamentale sotto-utilizzato nella gestione e nella risoluzione dei conflitti a tutti i livelli e in tutti i contesti, dalla politica alle istituzioni fino, alla società civile.

La prospettiva che le donne portano è fondamentale».

Non solo vittime, ma portatrici di cambiamento.

«Questo la Nato lo ha imparato nelle proprie operazioni: nei vent’anni in Afghanistan, ad esempio, abbiamo capito l’importanza di avere delle donne nelle Forze armate e delle figure come i gender advisor preposte all’analisi del conflitto e allo sviluppo di soluzioni che tengano conto delle diverse esigenze di uomini e donne. Dare valore alle donne nelle missioni aiuta a interagire meglio con la componente femminile della società, specialmente in contesti dove la cultura e le differenze di genere rischiano di essere barriere importanti».

Come sono stati questi primi sei mesi in carica?

«Non avrei potuto iniziare in un momento più interessante e complicato allo stesso tempo, alla vigilia di una guerra che ha sconvolto gli equilibri europei e mondiali. La guerra in Ucraina non è l’unica, ma è alle nostre porte e ci riguarda direttamente. In questo senso, ho potuto osservare come la Nato si sia messa in moto, cambiando la sua postura, aumentando la difesa sul fianco orientale».

Poi è arrivato lo storico vertice di Madrid dello scorso giugno.

«Lì ho voluto per la prima volta un momento di alto livello con la leadership femminile della Nato: non un incontro di donne che parlavano di donne, ma un vero e proprio scambio sulle sfide della sicurezza internazionale. Fra ministre degli Esteri e ministre della Difesa oggi ne contiamo 20 su 60: è il numero maggiore mai avuto, siamo un terzo del totale. Penso che sarebbe il caso che almeno uno dei due dicasteri andasse sempre a una donna, che vi fosse questa attenzione al momento delle nomine: di competenti - ve lo assicuro - ce ne sono molte. I premier del G7, al momento, sono tutti uomini: ma se guardiamo ai titolari degli Esteri 4 su 7 sono donne. Quello che sto facendo, e che sarà mi auguro la cifra del mio mandato, è normalizzare la prospettiva di genere, farne una dimensione trasversale e rendere così il mio compito un po’ meno “speciale”, come dice il suo stesso nome, e un po’ più parte integrante delle attività della Nato».

Ha giocato un ruolo il fatto che le premier di Svezia e Finlandia, i due Paesi che hanno appena firmato i protocolli di adesione alla Nato, siano donne?

«Credo di sì: le donne leader spesso danno prova di saper fare le cose in maniera diversa. Lo abbiamo visto anche durante la pandemia; il dialogo e l’ascolto sono una prerogativa femminile, come la volontà di cercare un modo non violento nella risoluzione dei conflitti».

L’anno prossimo la Nato sceglierà una nuova guida. È tempo per una segreteria generale, per la prima volta in oltre 70 anni di storia?

«I tempi sono maturi. Lo è e sarebbe un segnale molto forte per tutti».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

© RIPRODUZIONE RISERVATA