A 12 anni, Olimpia Leopardi è tornata da Roma al “paterno ostello” col padre Vanni: il palazzo di Recanati le sembrava un luogo immenso e tenebroso.
«Abituata a un appartamento a Roma, qui per me era tutto misterioso. Mi aggiravo, di nascosto, nelle stanze di notte, e a ogni scricchiolio dei vecchi mobili mi mettevo a correre, col fiato in gola».
CULTURA
Ora, di quel tempio laico, Olimpia è diventata la “vestale”, depositaria della fama e dell’eredità del grande avo, Giacomo. È successo dopo la morte naturale della nonna, la contessa Anna, nel 2010, e la scomparsa del padre Vanni, nove anni dopo. «Troppo presto. L’ho sempre saputo che sarebbe toccato a me, ma non così. Già nel ‘95 ero stata coinvolta in questa sorta di “holding culturale”, per il merchandising. Da poco, la Legge Ronchey favoriva l’autofinanziamento dei musei. Curando bookshop ed eventi, mi sembrava sacrosanto riuscire, con quei proventi, che qualcuno definiva con disprezzo “sfruttamento commerciale dell’arte”, a finanziare restauri e migliorie nel palazzo».
La contessa Anna aveva gestito l’eredità del patrimonio, immobiliare e morale, con passione e acume. «Quando, a mia volta, mi sono sentita chiamare “contessa”, mi sono guardata attorno: non pensavo che si rivolgessero a me. Ma mio padre non ha potuto vedere realizzato il suo progetto di aprire al pubblico altre stanze, quelle che Monaldo aveva fatto allestire per il tempo libero e lo studio dei figli, le cosiddette “Brecce”».
IL COVID
E scoppiò il Covid. «Oltre al dolore per la scomparsa di mio padre, l’incognita di una condizione sconosciuta. Tanti rischi, punti interrogativi: continuare e aprire, o fermarsi? Un salto nel buio. Mi sono trovata a dover decidere da sola, nel marzo 2020, quando i lavori non erano ancora terminati. Sono andata avanti: proviamoci, mi sono detta, come alla roulette». Poi, la svolta. «A luglio, un enorme afflusso di turisti: italiani che, non potendo andare all’estero, si concentravano nei luoghi di culto della nostra terra. All’improvviso, il palazzo ha ritrovato appeal, sull’onda dell’idea di mio padre, aprendo gli spazi della quotidianità dei fratelli Leopardi». E a giudicare dal numero di visitatori durante le recenti feste pasquali, l’interesse viene confermato, anche con l’arrivo degli stranieri che hanno riscoperto le Marche, il nuovo Chiantishire, e quindi Recanati.
I PROGETTI
Olimpia non si ferma davanti a niente. E non sa accontentarsi. Vicepresidente del Centro Studi Leopardiani, ha il chiodo fisso della diffusione nel mondo dell’opera del grande antenato. «La sua poesia non è ancora tradotta quanto dovrebbe. C’è molto da fare, per far sì che, all’estero, siano diffuse tutte le sue opere, anche con edizioni economiche». Esiste, in realtà, una traduzione in inglese dei Canti, edita da Penguin, e dello Zibaldone, tradotto da un’equipe di studiosi. «Ma penso allo Zibaldone anche in spagnolo, e in altre lingue più diffuse. E poi, le Operette morali, fondamentali: se non le conosci, non riesci a interpretare i suoi versi, ti manca il pensiero filosofico.
IL LASCITO
I suoi tre figli, Gregorio, Diana ed Ettore, sono ormai grandi. «Anche se vivono altrove, tra Milano e Roma, mi confronto con loro, nelle scelte da fare. Ettore ha 16 anni; il maggiore è iscritto a Scienze dell’Antichità. E Diana, 19 anni, studia storia dell’arte e mi dà buoni consigli; va in giro, all’estero, vede musei, coglie interessanti suggestioni, che mi trasmette per valorizzare il palazzo». Leopardi, un patrimonio di famiglia e dell’umanità. «Anche e soprattutto del territorio. Peccato che la città – spunta un accento polemico dalle parole della contessa Olimpia - se ne sia resa conto solo quando è arrivato Mario Martone a girare Il giovane favoloso. Leopardi è per Recanati come il patrimonio d’arte per tutta l’Italia: da ingombrante che era, ci si è accorti all’improvviso che è una ricchezza. Facciamolo funzionare, con buoni servizi, mobilità sostenibile, e un sorriso». Il suo, specchio di tanta passione e volontà
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