Le infermiere in lotta contro il virus, eroine che hanno spazzato via tutti gli stereotipi negativi

Le infermiere in lotta contro il virus, eroine che hanno spazzato via tutti gli stereotipi negativi
di Franca Giansoldati
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Sabato 4 Aprile 2020, 08:58 - Ultimo aggiornamento: 11:47

Un lavoro che si fa con il cuore in mano. Che rende grotteschi certi stereotipi, l'infermiera sexy, ammiccante, maliziosa. Ci voleva una tragedia planetaria come quella del coronavirus per restituire finalmente alle infermiere la loro vera identità. Per troppi anni questa professione è stata schiacciata tra bisogni, mode e clichè. I fatti di questi giorni hanno smentito ogni luogo comune svilente e acceso i riflettori su questo mestiere in modo realistico e corretto, mettendo in luce la capacità femminile di coniugare assieme resistenza, capacità tecniche, intuito, empatia, amore per il prossimo. Farà da spartiacque la fotografia icona di Elena la caposala distrutta dai turni, con ancora la mascherina addosso, crollata sulla tastiera del pc mentre probabilmente ricontrollava le ultime radiografie ai polmoni e gli ultimi dati dei pazienti in terapia intensiva. Un punto di non ritorno. L'infermiera torna ad avvicinarsi al mito iniziale di Clara Barton, attiva sul fronte della guerra civile americana e fondatrice della Croce Rossa americana, o a quello di Florence Nigthingale, la Signora con la lanterna, fondatrice dell'assistenza infermieristica moderna, la prima ad applicare il metodo scientifico attraverso l'utilizzo della statistica.



Oggi fanno storia i ritratti sui social delle piaghe sul viso di tante infermiere bresciane, cremonesi, bergamasche, piacentine. Raccontano di loro le occhiaie profonde e le abrasioni rossastre sul naso e sulla fronte, simbolo dei miracoli che può fare la tenacia femminile, soprattutto se mescolata alla competenza, al coraggio e all'abnegazione. Difficile trovare figure altrettanto iconiche, nella narrazione del Covid19. E non è un caso se in questi giorni, per raffigurare il destino collettivo, è stato scelto dai carabinieri il disegno di una infermiera che tiene in braccio una Italia avvolta nel tricolore come fosse un neonato. Niente di più efficace per trasmettere il messaggio che siamo in buone mani, che «ce-la-faremo» e «andrà-tutto-bene». Merito dei sanitari e in particolare delle infermiere. Se negli anni della Grande Guerra o durante la Spagnola, l'epidemia costata 50 milioni di morti nel mondo a metà della seconda decade del secolo scorso, questa figura professionale nell'immaginario collettivo aveva assunto una posizione di grandissimo impatto sociale, in seguito, dal fascismo in poi, ha subìto una sorta di progressivo svilimento, fino ad essere intaccata dalla potenza del cinema ammiccante e della televisione che dagli anni Sessanta in poi ha contribuito a ingabbiare l'infermiera in un cliché mortificante. A volte sono state rappresentate in modo totalmente negativo, persino malvagio, altre volte poco preparate o frivole o sexy, certamente non corrispondenti al ruolo quotidiano che hanno svolto in silenzio, in posizioni subordinate, nei sistemi sanitari. Persino un cartone animato giapponese popolarissimo negli anni Ottanta Candy Candy - ha aiutato a veicolare l'immagine di una crocerossina decisamente caricaturale. Il risultato finale di questo percorso storico, lungo quasi un secolo, ha finito per indebolire il ruolo della infermiera nell'immaginario collettivo, collocandola quasi in una posizione di serie B.


Il coronavirus e la tragedia che si è consumata nei nostri ospedali in Lombardia, Veneto ed Emilia, incapaci di fare fronte allo tsunami, hanno finalmente spazzato via le ombre. «Ore e ore con addosso la tuta che copre tutto, fino al cappuccio che stringe fino alla fonte. I gambali, i guanti e la mascherina, che a fine turno lascia i segni sul volto, vesciche, cicatrici. E la visiera che se si appanna - per il sudore, per il respiro ma anche per le lacrime a volte irrefrenabili non si può togliere. Non ci si può pulire il naso, ci si ferma un attimo per aspettare che il vapore vada via. E gesti precisi e responsabili, per sé e per gli altri, che implicano uscire di casa molto prima rispetto al solito, per avere il tempo utile di indossare le protezioni e quindi rientrare più tardi: il momento in cui si toglie la tuta è il più rischioso, non si lascia nulla al caso», ha raccontato Irene Rosini, presidente dell'Ordine delle professioni infermieristiche di Pescara.



Una voce uguale a quella di tante sue colleghe, in ogni città italiana. Donne che davanti a questa emergenza hanno anteposto i bisogni dei malati alla propria vita, cancellando volontariamente ferie, rientrando per lavorare, accumulando risposi, riorganizzando la vita famigliare, andando oltre quasi le proprie forze. In questa via crucis nazionale le infermiere in prima linea hanno visto un rafforzamento della loro immagine collettiva, come si evince dai diversi appelli a loro favore. Come quello della Federazione Nazionale Ordini delle Professioni Infermieristiche (FNOPI) e del Consiglio Nazionale dell'Ordine degli Psicologi (CNOP) che si sono rivolti al Ministro della Salute, Roberto Speranza, e alla Conferenza delle Regioni per chiedere che siano attivati in forma coordinata degli psicologi che assicurino il sostegno psicologico agli operatori in trincea. Sara Trovato, una infermiera che rischia di essere contagiata ogni giorno, e ha visto morire troppe persone, sussurra: «Adesso più che mai sono contenta di quello che faccio. Non vorrei essere da nessun altra parte. E se dovessi ammalarmi, mi salirebbe una tale rabbia per non poter essere lì, con i miei colleghi. Siamo una squadra e dobbiamo esserci tutti».

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