Tsunami nel Mediterraneo, a rischio Sicilia, Calabria e Salento: la prima mappa

Foto: ww.meteoweb.eu
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Martedì 6 Novembre 2018, 19:19 - Ultimo aggiornamento: 7 Novembre, 15:28

Anche nel Mediterraneo possono esserci degli tsunami. In Italia le zone dove maggiore è la probabilità sono la Sicilia orientale, la Calabria ionica, il Golfo di Taranto e il Salento. Lo indica la prima mappa di pericolosità degli tsunami generati da terremoti nell'area del Mediterraneo e dell'Atlantico nord-orientale e mari connessi (cosiddetta area Neam), realizzata nell'ambito del progetto europeo Tsumaps-Neam, coordinato dall'Ingv (Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia). «Si tratta di eventi rari, ma non impossibili e di grande impatto. Abbiamo realizzato una serie di mappe che fanno capire il grado di pericolosità, cioè la probabilità di avere un'inondazione in un certo periodo di tempo», spiega il sismologo Alessandro Amato. Nel Mediterraneo le tre zone che possono generare i terremoti più forti, e quindi anche gli tsunami più grandi, sono: «l'arco ellenico, cioè la zona che va da Cefalonia a Rodi, l'arco di Cipro, che arriva fino al Libano, e l'arco Calabro», precisa Roberto Basili, coordinatore del progetto. In Italia la «maggiore pericolosità si ha nella Sicilia orientale e lo Stretto di Messina, il Salento, la Calabria ionica e la Basilicata», prosegue. Nel Mediterraneo occidentale, altre zone di pericolosità, seppur minore, sono la Sardegna meridionale, la Sicilia e il Mar Ligure, perché ci sono delle faglie attive sulla costa nordafricana. «In media più del 30% delle coste mappate con il progetto, area Neam di cui l'Italia è solo una piccola parte e tra le più pericolose - conclude Basili - possono subire uno tsunami con onde più alte di un metro ogni 2500 anni».

LO TSUNAMI DIMENTICATO DEL 1743
Com'è noto durante il famoso Terremoto di Nardò del 1743 si verificò anche uno tsunami. Non ci sono testimonianze storiche dirette dell'evento ma negli archivi è documentato un brusco abbassamento del livello del mare nel porto di Brindisi, subito dopo il sisma.
Lungo la costa a sud di Otranto è stato rilevato il distacco dalla riva di grossi blocchi rocciosi (dal peso fino a 70 tonnellate) e il loro trasporto a diversi metri di distanza verso l'interno. Le datazioni col metodo del radiocarbonio sui gusci di organismi presenti nei massi rocciosi confermano l'ipotesi che essi siano stati trasportati da almeno due onde di tsunami connesse al terremoto del 20 febbraio 1743. Si è calcolato che la quota massima raggiunta dal maremoto è stata di almeno 11 metri lungo la costa immediatamente prospiciente l'epicentro, mentre fu limitata a 1,5 metri nella fascia costiera a nord di Brindisi.
 

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