Tombati 600 fusti di veleni. Allarme della Procura: elevato rischio ambientale

Tombati 600 fusti di veleni. Allarme della Procura: elevato rischio ambientale
di Paola ANCORA
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Venerdì 23 Dicembre 2016, 06:30 - Ultimo aggiornamento: 12:02
Nel cuore del Salento si nasconde una bomba ecologica. Pronta a deflagrare da un momento all’altro. Sotto le tonnellate di rifiuti della discarica ormai dismessa di Burgesi, a Ugento, sono stati infatti sepolti 600 fusti di rifiuti speciali e pericolosi, cancerogeni. Si tratta di policlorobifenili, contaminanti ambientali di origine industriale utilizzati in gran quantità negli anni Trenta come componenti di fluidi dielettrici e la cui produzione è stata poi pressoché dismessa a livello mondiale fra gli anni Settanta e Novanta, quando si scoprì che queste sostanze sono fortemente tossiche e cancerogene.
Seicento fusti di policlorobifenili sono stati smaltiti illegalmente all’inizio degli anni Duemila nella discarica di Burgesi. Si tratta del secondo ritrovamento accertato dalla Procura: il primo, per decine di quintali di Pcb, risale sempre a quegli anni. Scoperti i veleni interrati, partì l’inchiesta che portò poi a diverse condanne.
Ed è proprio grazie alle dichiarazioni rese fra il 2014 e il 2015 da uno dei condannati per quei fatti, Gianluigi Rosafio, che la Procura ha potuto finalmente individuare con precisione e accertare la presenza di un’altra enorme quantità di policlorobifenili nella discarica di Burgesi. E, visto «l’elevato rischio ambientale», nei giorni scorsi i magistrati hanno scritto al ministero dell’Ambiente, alla Regione e al Comune di Ugento chiedendo «l’adozione di tutti i provvedimenti necessari alla bonifica del sito e al ripristino dei luoghi interessati dall’illecito smaltimento di rifiuti pericolosi». A firmare la richiesta il sostituto procuratore della Repubblica Angela Rotondano e il procuratore aggiunto Elsa Valeria Mignone.
 Sono loro ad aver scoperto quali e quanti veleni nasconda ancora Burgesi, un luogo finito mille volte all’attenzione delle cronache. Perché numerosi sono stati gli esposti presentati e le inchieste della Procura, archiviate, sui rifiuti pericolosi finiti trenta metri sotto terra, sotto i sacchetti di spazzatura domestica, e mai smaltiti. E perché otto anni fa, una delle piste battute per trovare colpevole e movente dell’omicidio di Peppino Basile - ancora oggi irrisolto - fu proprio questa: le denunce del consigliere comunale e provinciale dell’Italia dei Valori sugli illeciti commessi a Burgesi.
Poi, con le indagini sull’ex Ato 2 di Lecce e sulla presunta gestione degli appalti per i rifiuti a colpi di mazzette e assunzioni all’ombra della Sacra Corona Unita, è arrivata la svolta. Nell’ambito di quel procedimento - che ha mandato a giudizio nove fra dirigenti, politici e imprenditori - Rosafio, genero del boss ergastolano Pippi Calamita, di Taurisano, è stato ascoltato più volte dagli inquirenti come testimone e persona offesa.
Durante gli interrogatori, avvenuti fra il 2014 e il 2015, Rosafio ha raccontato di aver trasportato fino alla discarica di Burgesi gestita dalla Monteco seicento fusti di policlorobifenili spacciati come «fanghi assimilabili a rifiuti solidi urbani». Siamo a cavallo fra il 1999 e il 2000. Rosafio ha riferito di aver prelevato quei fusti da un’azienda con quartier generale nel Torinese e una sede anche nel Salento.
Imprenditori, tecnici e operai - ha detto Rosafio ai pm - avevano però stretto un patto per mantenere il più assoluto silenzio sulle operazioni e per continuare quei lucrosi traffici di veleni fin nel cuore della terra salentina. Di più. Quando la Guardia di finanza scoprì i primi fusti di Pcb a Burgesi e Rosafio finì sotto inchiesta (venne poi condannato in via definitiva per traffico illecito di rifiuti ndr), un imprenditore del posto gli avrebbe consegnato cospicue somme di denaro per contribuire alle spese legali e comprare il suo silenzio su quel giro d’affari.
Per trovare conferma alle dichiarazioni di Rosafio, i pm Rotondano e Mignone hanno ordinato alcune perizie e il monitoraggio sia dei pozzi di captazione del percolato della discarica sia quello delle acque di falda vicine all’impianto dismesso. E «le analisi - scrivono i periti del Cnr di Bari - dimostrano inequivocabilmente che nella discarica sono stati stoccati fusti contenenti Pcb», policlorobifenili rinvenuti nel percolato, ma fortunatamente non ancora nell’acqua.
Così, se da un lato la magistratura ha dovuto chiedere l’archiviazione del procedimento perché i reati commessi 15 anni fa sono andati tutti prescritti, dall’altro, visto «l’elevato rischio ambientale emerso dalle indagini svolte», la Procura ha chiesto l’immediata «adozione dei provvedimenti necessari alla bonifica del sito». Un immondezzaio di ogni tipo di veleno, in maniera sistematica.
Ci saranno tempo e, soprattutto, denaro per mettere in sicurezza e ripulire la discarica dai rifiuti pericolosi? A questa domanda dovranno rispondere Comune, Provincia, Regione, Asl e Arpa. Che dovranno valutare anche quali spazi giuridici potranno essere eventualmente percorsi per chiedere alle imprese private, presunte responsabili di quell’inquinamento, il pagamento dei danni e le risorse necessarie a bonificare l’area. Evitando di infilare la questione nelle secche delle burocrazia ed allungare i tempi, come purtroppo è già accaduto per altri siti pericolosi, per altre discariche abusive di questo Salento, che per tanto, troppo tempo è stato considerato dai “predoni dei rifiuti” alla stregua di una terra franca.
 
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