Omicidio Eleonora e Daniele, dopo il verdetto un lamento straziato. «Resta un vuoto incolmabile»

Omicidio Eleonora e Daniele, dopo il verdetto un lamento straziato. «Resta un vuoto incolmabile»
di Roberta GRASSI
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Mercoledì 8 Giugno 2022, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 15:29

Lo sguardo nel vuoto, come se nei pochi secondi necessari al presidente della Corte per leggere il dispositivo, passasse il film di una vita intera. La vita spezzata di Daniele e Eleonora, il racconto di mesi d’inferno iniziati in quel terribile settembre di due anni fa in cui i due ragazzi furono uccisi da Antonio De Marco, senza un perché. Uccisi, per troppa felicità.  Una madre disperata, due papà dai volti impietriti. E nell’aula bunker del carcere di Borgo San Nicola a Lecce dove si è celebrata l’ultima udienza del processo di primo grado per omicidio, solo il silenzio. La parola “ergastolo” non ha scalfito i volti dei presenti: «Nessuna sentenza potrà mai riempire quel vuoto», ha detto il padre di Daniele, il giovane arbitro che sorride ancora, nelle foto, e sorrideva accanto ad Eleonora. Entrambi pronti a spiccare il volo e a realizzare i propri sogni.

Nel silezio assordante il lamento della mamma di Eleonora 

Elencate le pene, precisati i risarcimenti, uscita di scena la giuria di togati e popolari, l’enorme aula circondata dalle sbarre, è rimasta immobile.

Neppure un mormorio, tanto da poter quasi sentire il battito forsennato del cuore dei presenti. Mamma Rossana si è lasciata cadere sulla sedia. Ha portato le mani al volto. È stato allora che ha pianto. Il lamento di una madre, privata per sempre del sorriso di sua figlia, ha squarciato il silenzio. Gli avvocati, gli amici, l’hanno sorretta e accompagnata fuori, in una stanzina in cui ha potuto ritrovare la forza di raggiungere l’auto che l’ha portata via. 

Niente applausi e abbracci: famiglie impietrite dal dolore

Nessun commento, nessuna scena di tripudio. Non applausi, non abbracci. Nulla da festeggiare, solo il ricordo da tenere vivo e una battaglia giudiziaria per ottenere giustizia che è giunta al suo primo giro di boa. 
Così i papà di Eleonora e Daniele: arrivati puntuali al mattino, hanno atteso la camera di consiglio. Per entrare nella bunker hanno oltrepassato le transenne su cui era stata esposta un’altra immagine. I due ragazzi, anche qui insieme, e una frase: «Giustizia, senza se e senza ma». 
Il processo è andato avanti spedito. Una fatica centellinata, il cammino verso il verdetto che non è stato caratterizzato da un dibattito sulla dinamica dei fatti o sulla identificazione del responsabile. Ma si è incentrato su un unico punto: la capacità dell’omicida di intendere e volere e di stare a processo, considerate le perizie, le analisi, gli approfondimenti psichiatrici che sono stati fatti. Antonio De Marco non era presente, del resto mai era apparso in aula. Nessuna invettiva nei suoi confronti, nessun commento. Solo il dolore che riaffiora, che torna a intensificarsi senza curarsi del tempo che è passato. 

Gli amici: «Anche dopo l'ergastolo non riusciamo a dare senso alla parola Giustizia»

 «Per Fernando, per Floreana, per Antonella, Valentina, Lorenzo, Rossana, per Noi, gli amici», scrive su facebook Riccardo Panarese, amico fraterno di Daniele. «Nemmeno 100 ergastoli potranno dare un vero senso di giustizia. Oggi ho pianto di nuovo, perché non dovevamo essere qui, non doveva andare così. Ti voglio bene Eleonora, ti voglio bene fratello mio».  «Oggi sono arrivato in aula – racconta Gianmarco Spedicato – con questa parola in testa, giustizia. Dopo più di un anno a seguire da vicino ogni singola udienza di questo processo, dopo più di 3mila pagine di fascicolo lette, dopo aver ascoltato ogni interrogatorio di testimoni. Eppure dopo aver ascoltato la lettura del dispositivo da parte del giudice e aver sentito la parola ergastolo non riesco a dare un senso al significato di Giustizia».  «Non trovo giustizia – va avanti – negli occhi di papà Fernando scavati dal dolore, non trovo giustizia nel pianto dirotto di una madre, non trovo giustizia nell’ergastolo che diventerà prima libertà condizionata poi lavori socialmente utili e infine liberazione anticipata. Non trovo giustizia nel dolore che devono patire tutti di fronte a una giustizia che non c’è». 


Un capannello si è formato nel parcheggio, attorno alle 14 del pomeriggio. I ragazzi, i famigliari. Le carezze, la consolazione. Ancora lacrime, ancora parole di conforto dietro gli occhiali scuri e sotto il sole cocente. 
«Non è ancora finita» ha detto qualcuno. C’è l’Appello, dopo il primo grado. Poi la Cassazione. Per gli affetti più cari dei due ragazzi, la sentenza di ieri è solo un primo passo. Un passo importante che però non risarcisce. Non restituisce. E non consola. 
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