«Lasciato morire perché albanese»: medici aggrediti

«Lasciato morire perché albanese»: medici aggrediti
di Maddalena MONGIO'
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Giovedì 27 Luglio 2017, 05:35 - Ultimo aggiornamento: 15:46
Minacce di morte e accuse di razzismo ai sanitari, dopo la morte del parente. Prime ore da incubo, quelle di ieri mattina, nel reparto di Cardiochirurgia del “Vito Fazzi” di Lecce e solo l’intervento delle forze dell’ordine ha evitato che si consumasse una tragedia. Il bilancio della giornata racconta di un’operatrice socio-sanitaria, G.F., e un’ausiliaria di Sanitaservice M.S., malmenate, dileggiate, sino a quando non sono finite in pronto soccorso dove sono state dimesse, dopo gli accertamenti di rito, con una prognosi di sette giorni; del terrore dilagato in corsia per le gravi minacce pronunciate dai parenti dell’uomo che purtroppo non c’è più; della tensione altissima con i medici che sono stati obbligati a stare chiusi in una stanza. Sembrano attimi di terrore di una fiction, ma il teatro dell’azione era un reparto di ospedale.
Doveva essere operato al cuore questa mattina, l’uomo di mezza età di origini albanesi, ma quando sono arrivati i parenti lo hanno trovato morto. A nulla è servito l’intervento del rianimatore e a quel punto il finimondo. Il teorema è semplice nella sua crudezza: «Non l’avete curato perché è albanese, se fosse stato italiano non sarebbe morto». Da questo presupposto urla e minacce: «Oggi non tornate a casa», «Dovete morire come è morto mio padre», e via su questa scia. Secondo la prima ricostruzione a mezzanotte il personale di turno ha fatto il consueto giro e quest’uomo era tranquillo. Anche nel nuovo giro delle 5 del mattino nessuno ha rilevato problemi perché il paziente dormiva e, secondo quanto riferiscono i presenti, russava. Nella stanza dove era ricoverato l’uomo c’erano anche altri degenti e alcuni assistenti: nessuno ha notato segnali di disagio o di malore. «È passato dal sonno alla morte», questo il commento che circolava in reparto dopo che le acque si sono calmate.
Certo è che lo choc del personale sanitario è stato fortissimo, ma anche dei ricoverati: tutti intimoriti del possibile gesto inconsulto che in quella situazione di estrema tensione poteva scattare. Nell’immediato della reazione inferocita è intervenuta la security, ma è servito l’intervento di una volante per arginare la rabbia e la violenza.
Non è la prima volta che la rabbia travolge al punto da portare gli utenti o i loro parenti a reagire con atti di violenza, anche fisica. 
Spesso ne è teatro il pronto soccorso a causa dei tempi di attesa, ma qualche anno fa fu malmenato un altro direttore di reparto che stava tentando di spiegare la ragione del ritardo nell’esecuzione di un esame. C’è un problema di contenimento della frustrazione e della sofferenza che sicuramente, in alcune persone, non trova il canale per essere contenuta e si arriva al paradosso. Una cosa è certa: gli operatori sanitari di Cardiochirurgia rifiutano categoricamente l’accusa di razzismo, anzi. «In reparto vengono operati e curati tanti immigrati – spiega con voce dall’emozione una lavoratrice in forza in Cardiochirurgia – e non è accettabile sentirsi dire queste cose. Noi non facciamo differenza di stato sociale o professionale: chiamiamo tutti per cognome. Ho cercato di spiegare a queste persone che purtroppo può accadere, io stessa ho subito la perdita di una persona cara, ma erano parole buttate al vento: non volevano sentire ragione. A raccontarlo dopo può sembrare facile, ma ho avuto davvero paura che a casa non sarei tornata».
Le due lavoratrici malmenate hanno presentato denuncia al posto fisso di polizia, ma ora bisogna vedere se anche i parenti presenteranno denuncia e se l’ospedale deciderà di disporre l’autopsia, come avviene nei casi in cui si vogliono fugare tutti i dubbi, sempre che non arrivi l’ordine di un magistrato.
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