La vedova Montinaro: indifferenza per Riina ma ricordiamo chi era

La vedova Montinaro: indifferenza per Riina ma ricordiamo chi era
di Nicola QUARANTA
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Sabato 18 Novembre 2017, 05:50 - Ultimo aggiornamento: 19:34
Il dolore dei figli del boss. Il lutto indelebile dei familiari delle vittime di mafia. Sentimenti che si intrecciano, anche in Salento, nel giorno della morte di Totò Riina.
Una rosa nera come foto del profilo, sovrastata dall’indice di una ragazza che indica il silenzio come copertina. A fugare ogni dubbio sul significato dell’immagine, anche il tatuaggio “shhh...” in evidenza, sul dorso del dito. E poi un palloncino rosso a forma di cuore lasciato andare in cielo da una bimba. È così che Maria Concetta Riina ricorda e saluta per l’ultima volta suo padre Totò, boss di Cosa nostra, spentosi nel reparto detenuti dell’ospedale di Parma, dopo aver subito due interventi chirurgici. L’ultimo respiro, all’indomani del suo 87esimo compleanno. Sulla bacheca virtuale della figlia, una pioggia di commenti «Mi dispiace veramente molto mari, ti do le mie più sentite condoglianze per un uomo che aveva dei principi e che è stato presente per la sua famiglia, mi dispiace veramente moltissimo, non ci sono parole per dire quando mi dispiace», scrive una donna. E ancora: «Non ho parole per descrivere il dispiacere un abbraccio a tutti voi da parte mia», scrive un altro.
Parenti, figli, amici più stretti che vivono con strazio il trapasso del boss di Cosa Nostra, scambiandosi decine e decine di like e condivisioni su Facebook. Una valanga, al punto che il social, secondo i familiari di Riina, li ha rimossi in seguito alle numerosissime segnalazioni ricevute. «A qualcuno ha dato fastidio il vostro Cordoglio, non ho parole», scrive il marito della primogenita di Riina, Tony Ciavarello.
Il “capo dei capi” è deceduto ieri nel cuore della notte, alle 3.37. La Procura di Parma ha disposto l’autopsia sulla salma. La decisione di procedere all’esame medico legale è stata presa «trattandosi di un decesso avvenuto in ambiente carcerario e che quindi richiede completezza di accertamenti, a garanzia di tutti», ha spiegato il procuratore Antonio Rustic. A luglio scorso il tribunale di sorveglianza di Bologna aveva rigettato la richiesta di differimento della pena per Riina avanzata dai suoi legali. Il capo dei capi di Cosa nostra è rimasto sino alla fine nel reparto detenuti dell’ospedale di Parma in regime di 41 bis. I giudici hanno ritenuto che il boss fosse curato nel migliore dei modi nell’ospedale emiliano. Le condizioni di salute di Riina si erano aggravate negli ultimi giorni sino a diventare disperate. Per questo motivo, su indicazione dei medici che ne avevano accertato la gravità, il ministro della Giustizia Orlando giovedì aveva concesso ai familiari di potersi recare al capezzale del loro congiunto.
 
«Io non mi pento ... a me non mi piegheranno». Nessun cedimento, nessun passo indietro. Fino alla fine. Riina, «la belva», così lo chiamavano in Cosa nostra per la sua crudeltà, ha pronunciato queste parole solo qualche mese fa parlando con la moglie nel carcere di Parma. Una vita da latitanti insieme, poi insieme a distanza, divisi dalle sbarre della cella, quella di Riina e Ninetta Bagarella. «Io non voglio chiedere niente a nessuno - le diceva riferendosi alle istanze che il suo legale avrebbe voluto presentare - mi posso fare anche 3000 anni no 30 anni».
Una conversazione, quella dei due coniugi, che ha confermato ai giudici, chiamati a decidere sulla compatibilità col carcere delle condizioni di salute del boss, che il capo dei capi era ancora vigile e lucido. E consapevole del suo ruolo. «Io sono Salvatore Riina ... e resterò ... e resterò nella storia», diceva alla moglie. E che lo scettro del capo di Cosa nostra fosse ancora suo l’ha scritto, a luglio, anche la Dia nella sua relazione semestrale sulla criminalità organizzata.
«Il boss corleonese continuerebbe ad essere alla guida di Cosa nostra a conferma dello stato di crisi di un’organizzazione incapace di esprimere una nuova figura in sostituzione di un’ingombrante icona simbolica», si leggeva nel documento. Nonostante l’età e lo stato di salute compromesso da anni, il padrino dunque non è mai tornato indietro. Solo tre anni fa conversando durante l’ora d’aria con un compagno di detenzione, Riina ha continuato a rivendicare le stragi, a minacciare di morte magistrati, a ricordare quando fece fare a Falcone «la fine del tonno».
Con lo Stato Totò u curtu, non ha mai voluto parlare. Recentemente al processo sulla cosiddetta trattativa il suo legale accennò a una intenzione di rispondere alle domande del pm. Ma Riina, steso su una branda, già in pessime condizioni, collegato in videoconferenza, smentì all’udienza successiva.
Restano i misteri. E insieme ad essi la rabbia dei famigliari delle vittime. «Il mio primo pensiero stamani è andato ai miei figli, ai familiari delle vittime di Riina, alle mogli e alle madri private dei loro cari. La sua morte mi lascia indifferente, non dimentichiamo chi era: un criminale. Abbiamo dimostrato ancora una volta di essere un Paese civile, lo abbiamo fatto garantendo al boss il ricovero in ospedale, le cure necessarie e quella morte dignitosa che lui non ha concesso alle sue vittime. Il guardasigilli ha firmato il permesso per consentire alla moglie e ai figli di Riina di stare accanto al loro congiunto, la stessa civiltà non è stata dimostrata dal padrino corleonese. Io e i miei figli non abbiamo potuto vedere Antonio», afferma Tina Montinaro, la vedova del poliziotto salentino Antonio, di Calimera, caposcorta di Giovanni Falcone, morto con il giudice antimafia nella strage di Capaci il 23 maggio 1992, insieme con Francesca Morvillo e con gli altri agenti di scorta, Rocco Di Cillo e Vito Schifani.
«Adesso - aggiunge - la nostra speranza è che si arrivi alla verità su quell’eccidio che non era solo la “strage di Riina”. Si è portato nella tomba i suoi segreti, ma bisogna continuare a cercare la verità e alle Istituzioni chiediamo di continuare a farlo. Noi continueremo ad andare nelle scuole e a parlare di quello che è successo perché la memoria non si spenga. La morte di Riina - conclude - non è la fine di Cosa nostra, la mafia c’è, è cambiata, si è adeguata al dopo stragi. Va lottata con forza e non si può abbassare la guardia».
 
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