L'addio ai secolari grigi e il soffio della rinascita

L'addio ai secolari grigi e il soffio della rinascita
di Stefano MARTELLA
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Lunedì 7 Settembre 2020, 09:16 - Ultimo aggiornamento: 12:36
Un uomo piccolo e gracile si aggira nella foresta grigia. A fatica, dondolante, avanza nell'erba alta che quasi ne fagocita il corpo.
Ma il vecchio è imperterrito, vuole arrivare in un punto del campo con l'ostinazione di chi vuole raggiungere qualcosa prima che svanisca per sempre.
Si ferma davanti a un ulivo monumentale, passa la mano sopra la corteccia rugosa in cui pare specchiarsi la pelle del viso.
Ha un tronco talmente grande che sembra formato da quattro colonne di legno.
La crosta legnosa ondeggia in rilievi deformi, nodi, cavità, che danno al tronco sembianze di corpi e ossa imprigionate sotto lo strato della corteccia. Si apre verso il cielo privo di chioma e con grandi rami mozzati, in una maestosità amputata, come un re nudo e sfigurato. Come un re morto.
«Ho dormito dentro questo albero», dice Lazzaro Mancarella, olivicoltore di 88 anni e proprietario di queste terre nel comune di Surbo, a nord della provincia di Lecce. Alcune pale eoliche tratteggiano grandi ombre a forma di spada sulle facciate delle masserie, roteando pigramente nel primo cielo settembrino, timidamente grigio e disseminato di nuvole come cespugli di ovatta. Intanto, le parole di Lazzaro evocano tempi lontani. «Quando finivamo di arare con i cavalli, io e mio padre ci riposavamo qua dentro», dice indicando la parte posteriore dell'albero che si apre creando quasi una stanza avvolta dall'ombra. Mangiavano pane e fichi d'india. E poi c'era un orcio di terracotta che conservava l'acqua, che Lazzaro chiama mbile. «Lì dentro l'acqua si conservava fresca per tutta la giornata. Mio padre era devoto dei Santi Martiri e andava a prenderle fino ad Erchie», afferma con voce solenne, come se parlasse di una terra lontana. Lazzaro, uomo vicino al secolo, immerso per l'ultima volta accanto ai suoi ulivi secolari. Tra qualche ora, di loro, non rimarrà neanche la scultura legnosa. Saranno eradicati. Venticinque ettari di uliveto per un totale di 1.800 piante. Il suono delle ferraglie dei cingolati rompe il silenzio eterno della campagna. I lavori sono partiti di buon ora. Un caterpillar ha il compito di sradicare gli alberi, mentre un altro, dotato di una enorme tenaglia, di frantumarli e sezionarli. I tronchi, spezzati dalle braccia metalliche, emanano rumore di ossa rotte. Eppure, Lazzaro non lascia trasparire emozioni. Osserva in silenzio, con le mani poggiate sui fianchi. Forse è per i suoi piccoli occhi glaciali, che ricordano vagamente quelli di Clint Eastwood, o forse perché, quando si arriva a 88 anni, le emozioni si impara a nasconderle, a serbarle come reliquie. «Mi sono rassegnato, anche perché non è un problema solo mio, è un problema di tutti noi», dice lapidario. È a Cosimo, suo figlio, che si inumidiscono gli occhi. A lui, 43 anni, spetta il compito della ricostruzione dell'azienda di famiglia, distrutta dalla xylella. «Su metà ettari reimpianterò Leccino, sull'altra metà Favolosa. Divido il rischio. Anche perché abbiamo ancora poche indicazioni certe su quale delle due piante sarà più resistente dell'altra nel lungo periodo», afferma Cosimo. Ma Lazzaro continua a essere impaziente, ha altro da far vedere prima che arrivino i cingolati, quindi riprende la marcia nell'erba alta, in direzione di un altro ulivo monumentale. Indica un punto alla base del tronco, un antro dalla forma di una bocca. «Quando ero ragazzino e c'erano le settimane di vacanze natalizie, mio padre, per non lasciarmi in mezzo la strada, mi metteva il paniere in mano e mi portava in campagna a raccogliere qualche oliva. Quando pioveva mi nascondevo là dentro», dice indicando l'antro legnoso. «All'epoca la gente non aveva niente, lottava per la sopravvivenza. Mio padre, grazie all'agricoltura, aveva la possibilità di mandarci a scuola ma io, neanche finita la quinta elementare, volevo lavorare in campagna, negli uliveti. Li dicevo: ogghiu me ndegnu fore, tata». Voglio lavorare nei campi, papà. Questo Lazzaro ripeteva, come una litania, a suo padre. I ricordi continuano ad aggrovigliarsi. «Mia madre cuoceva le fave bianche e preparava il pane da distribuire agli operai - racconta Lazzaro - io avevo il compito di portare tutto all'uliveto con il traino. Quando il cibo arrivava nei campi i contadini ne spezzavano metà da mangiare subito e l'altra metà la mettevano nella tasca interna della giacca, da portare a casa per sfamare i figli». Questo campo gli appartiene da generazioni, era di suo padre e prima ancora di suo nonno. Più Lazzaro parla degli ulivi, più escono fuori i ricordi della famiglia, come se fossero legati da un cordone ombelicale. Mentre si ascoltano le sue parole si comprende la simbiosi tra questa pianta e il contadino, un legame che ha spesso valicato i confini dell'agricoltura. Proprio dall'uomo, oltre che dal tempo, sono stati modellati questi tronchi. Da una pratica agronomica usata per secoli e conosciuta come slupatura, che consisteva nell'asportare dal tronco e dai rami, con ascia e scalpelli, il legno morto fino ad arrivare al legno sano. In questo modo il tronco ha assunto l'aspetto scavato e scorticato, plasmato per secoli fino ai nostri giorni. Questo albero può vivere per centinaia, migliaia di anni. Può accompagnare intere generazioni della stessa famiglia, è un viaggio indietro nel tempo, che riporta alla memoria degli avi. La sua morte ha segnato il dissolvimento di una memoria collettiva, lo scioglimento di un legame primitivo, quasi spirituale. «Guai tornasse mio padre e vedesse come sono ridotti gli ulivi. Questo è quello che lascio a mio figlio. È questa la fine», afferma questa volta con la voce strozzata. Dopo un paio di ore le macchine hanno fatto quello che dovevano. Una parete di tronchi ammassati si staglia al centro della campagna, che si svela improvvisamente piatta e nuda. Al figlio Cosimo, e a tutti gli altri figli, il compito di rivestirla. Ci sarà da scrivere una nuova pagina di storia.
Stefano Martella
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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