Angela uccisa e violentata. La Cassazione: «No alla riapertura del processo»

Angela Petrachi
Angela Petrachi
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Martedì 9 Giugno 2020, 17:41 - Ultimo aggiornamento: 18:37
I giudici della quinta sezione penale della Corte di Cassazione hanno stabilito che i due nuovi profili del dna trovati sugli indumenti di Angela Petrachi non siano sufficienti a disporre la rivisitazione del processo conclusosi con la condanna definitiva all’ergastolo dell’agricoltore Giovanni Camassa, 53 anni, di Melendugno.

Una storia giudiziaria che giunge così alla conclusione dopo 18 anni, quando l’8 novembre del 2002 il corpo della mamma di 31 anni venne trovato senza vita, e con segni evidenti di violenza, nel bosco di “Giammarei” della sua Melendugno. Una storia che avrebbe potuto aprire uno o più capitoli nuovi se la Corte Suprema si fosse determinata diversamente dagli orientamenti indicati prima dalla Procura generale di Lecce e poi dalla Corte d’Appello di Potenza competenti per le richieste di rivisitazione dei processi: avevano respinto le istanze presentate dall’avvocato Ladislao Massari. La difesa sosteneva ed ha sostenuto ancora la rilevanza delle due tracce di dna individuate sulle calze della donna. Per una ragione: perché  non appartengono a Giovanni Camassa.

Un profilo noto ed uno ignoto, quel dna, è stato chiarito nell’istruttoria condotta dal sostituto procuratore generale Giovanni Gagliotta con la difesa rappresentata dall’avvocato difensore, per stabilire se ci fossero i presupposti per dare parere favorevole alla rivisitazione del processo. Un passo indietro: nel corso delle indagini preliminari cinque persone vennero iscritte sul registro degli indagati. E tutte furono invitate al prelievo di un campione di saliva per estrarre il dna. Tra queste anche l’ex marito. È suo uno dei nuovi profili del dna. Un indizio a cui non hanno dato importanza sia la Procura generale che la Corte d’Appello di Potenza poiché nel processo di primo grado emerse che gli ex coniugi avessero continuato a frequentarsi anche dopo la separazione. Ed anche la Cassazione è stata di questo parere.

Lui, l’ex marito, si avvalse della facoltà di non rispondere, nel processo di primo grado conclusosi con l’assoluzione di Camassa “per non avere commesso il fatto”. Era la sera dell’11 luglio del 2007, Camassa poggiò la testa sulle sbarre della cella di sicurezza e scoppiò a piangere. Da imputato libero affrontò l’appello, ancora difeso allora dall’avvocato Francesca Conte, con l’accusa rappresentata da Giuseppe Vignola che di lì a poco sarebbe diventato procuratore generale. E urlò la sua innocenza al momento della pronuncia della condanna all’ergastolo (Corte d’Assise d’Appello di Lecce, 3 luglio del 2012 presidente Rodolfo Boselli, relatore Roberto Tanisi), determinata anche dalla consulenza dell’ingegnere Luigina Quarta sulle telefonate con l’allora compagna e da quella frase “ti sto coprendo”. Infine, quella che sembrava la sentenza definitiva: il 26 febbraio del 2014 la Cassazione confermò l’ergastolo.

Camassa intanto ha trascorso 14 anni di reclusione, fra carcere e domiciliari. Fu arrestato a maggio del 2003 nell’inchiesta condotta dall’allora pubblico ministero della Procura di Lecce, Maria Cristina Rizzo. Libero dopo l’assoluzione in primo grado, tornò in carcere con la sentenza d’appello. In questi giorni la moglie ed altri familiari hanno proclamato la sua innocenza attraverso gli organi di informazione. Una speranza che si appigliava alla richiesta di rivisitazione del processo.

I figli della Petrachi sono rappresentati dall'avvocato Silvio Verri, la famiglia di origine da Tiziana Petrachi ed Erlene Galasso.
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