«Due anni internato, salvo grazie al lavoro»

Foto: Ivan Tortorella
Foto: Ivan Tortorella
di Erasmo MARINAZZO
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Venerdì 27 Gennaio 2017, 06:45 - Ultimo aggiornamento: 12:23

Due anni nel campo di internamento per militari italiani. E se è riuscito a sopravvivere al freddo, alla malattie, alla malnutrizione, nonché alla durezza ed alla pericolosità dei lavori a cui furono sottoposti i militari italiani, lo deve al mestiere che aveva nelle mani. Giovanni Gargiulo, classe 1914, leccese, falegname riuscì a stemperare le condizioni di vita disumane del lager di Julich, a 40 chilometri da Colonia, grazie all’abilità di lavorare il legno in una fabbrica e di farsi trovare pronto a trovare un rimedio ai danni causati dai bombardamenti alle case dei tedeschi.
Maestro Nino è oggi trisnonno e da tempo ormai ha lasciato nel dimenticatoio gli attrezzi di lavoro. Non lo abbandonano mai gli anni vissuti con la divisa di soldato ed in particolare la permanenza a Julich dal 9 settembre del 1943 al 9 settembre del 1945. A quasi 103 anni è un testimone vivente della “Giornata della memoria”: lui soldato dell’Esercito Italiano trattato da internato e non da prigioniero (per superare gli accordi di Ginevra del 1929) che dopo l’Armistizio dell’8 settembre scelse la detenzione nei campi della Germania piuttosto che prestare giuramento alla Repubblica sociale.
«Arrivammo a piedi a Julich, dopo aver camminato quasi 50 chilometri. Ci fecero scendere dal treno a Vipiteno e marciammo sotto il controllo dei soldati tedeschi», sono i primi ricordi che affiorano nella memoria di un uomo che lì in Germania 70 anni fa lasciò tanti amici con cui condivise la scommessa contro la morte che portava il simbolo della svastica. «Chi cadeva e non si rialzava veniva preso di peso e buttato dentro un camion. Un corpo sull’altro, accatastati. Senza neanche capire chi fosse vivo o chi fosse morto. Avevo i piedi sanguinanti per le piaghe e le vesciche, caddi anch’io. A darmi la forza di rialzarmi furono proprio quelle scene disumane».
Storie come quelle di Giovanni Gargiulo sono quelle riportate nei libri di storia che raccontano i parallelismi fra i lager in cui vennero internati gli ebrei e quelli riservati ai soldati italiani che dopo l’armistizio non vollero schierarsi con i tedeschi. Gargiulo era stato richiamato alle armi nel 1940, a Lecce lasciò la moglie e la prima figlia, per essere assegnato alla missione in Mar Mediterraneo. Rimase a Rodi: «Non ce la passavamo male, l’isola era meravigliosa. Poi dopo l’8 settembre cambiò tutto».
Diventò da un giorno all’altro prigionero e poi internato. Se a Julich l’abilità di falegname gli fece guadagnare ogni giorno un pezzo di pane per sopravvivere alla fame, a Rodi fu il caso a salvargli la vita: non fu imbarcato sulla “Donizetti” affondata poi dagli Alleati, solo perché anche gli ufficiali tedeschi convennero infine che fronte di una capienza di 700 persone, oltre 1.800 non ne potevano proprio entrare.
Raggiunse l’Italia con un’altra nave, Giovanni Gargiulo. Sbarcò a Taranto e da lì raggiunse Vipiteno con il treno. L’arrivo a Julich dopo il viaggio drammatico a piedi coincise con la consapevolezza di stare in un lager: «Ci tolsero tutto. Restammo per due anni con gli stessi abiti leggeri indossati a Rodi. Come trascorrevamo il tempo? In branda, si poteva andare in cucina a prendere il rancio. Cioè acqua e bucce di patate. Anche lì ho rischiato la vita: trovai per terra uno scalpello, lo ripulii e lo conservai. Un giorno arrivarono le “SS”, mi fecero inginocchiare con il mitra puntato contro e circondato di soldati dotati di bombe a mano. Grazie ai registri che riportavano la qualifica dio falegname, riuscii a farla franca».
La svolta arrivò quando sembrava che stesse tutto per precipitare: Giovanni Gargiulo, falegname, venne inserito fra quelle centinaia di migliaia di italiani operai o artigiani specializzati. Vennero spediti nei campi, nelle fattorie e nelle industrie. Anche belliche. «Lavorai in una fabbrica di lana, il mio maestro parlava italiano e ripeteva spesso: Gargiulo, la guerra sta finendo. Era bravo ed era buono: a me ed ad un altro internato faceva trovare ogni giorno due fettine di pane. Di nascosto. Quando andavo nelle case degli ufficiali per riparare le porte danneggiate dalle bombe mi regalavano una pagnottina. Devo dirla tutta: nonostante le atrocità della guerra sarai tornato a lavorare in Germania dopo la guerra. Il maestro mi lasciò l’indirizzo, ma rientrando in Italia con gli americani lo persi dentro al giubbotto lasciato per strada»,
Gli occhi diventano lucidi: «Quanti amici ho lasciato lì a Julich».

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