Diffamazione su Facebook? Assolta. Nome e foto profilo non bastano per confermate che sia l'autrice dell'offesa

La decisione del Tribunale di Lecce
La decisione del Tribunale di Lecce
di Roberta GRASSI
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Giovedì 30 Marzo 2023, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 07:23

Impossibile sostenere che l’imputata sia anche la “proprietaria” del profilo. Impossibile perché Facebook non concede di conoscere i dati di registrazione, tanto per cominciare, in quanto, nello Stato estero in cui ha sede il server, la diffamazione non è reato. Così è stata assolta “per non aver commesso il fatto”, ma con formula dubitativa, una donna di Squinzano. Era accusata di aver diffamato sul social una educatrice, sostenendo che vi fossero stati maltrattamenti ai bambini. 

Il processo

Ha affrontato un processo dinanzi al giudice monocratico Marco Marangio Mauro che ha ritenuto non si fosse raggiunta la prova della compiuta identificazione della persona, al di là del profilo. 
Quello riportato sul web, infatti, anche se è il proprio nome e cognome, è pur sempre un “nick”. Non certifica, per lo meno non in un’aula di giustizia, che ad agire sia stata la persona in questione, neppure se l’immagine del profilo corrisponde a quella della carta di identità. Chiunque, difatti, potrebbe scegliere di aprire un profilo, utilizzando generalità non rispondenti al vero. 
L’imputata era difesa dall’avvocato Paolo Spalluto, che ha argomentato sul punto.

La parte civile dall’avvocata Consuelo Palma Renna. Il pm aveva invocato una condanna pari a sei mesi di reclusione. 

Il motivo dell'assoluzione

La ragione dell’assoluzione: «Non può essere provata la riferibilità alla stessa della pagina Facebook o comunque del profilo su cui sarebbe stata postata la frase diffamatoria oggetto di querela». Ciò per la mancata verifica dell’indirizzo Ip che non consente di escludere l’utilizzo abusivo del nickname del presunto autore da parte di terzi. Rimane, secondo il Tribunale di Lecce, il dubbio che «il profilo Facebook in oggetto sia stato materialmente utilizzato dall’imputata». L’avvocato Spalluto aveva infatti sottlineato che: «imporre ai social network di esibire i “file di log” o i file contenuti nel server che possono dimostrare con alto grado di attendibilità) la paternità di un post bisogna ricorrere a rogatoria inoltrata al Ministero di Giustizia che, la trasmette entro 30 giorni per via diplomatica all’autorità straniera. Ma essa viene respinta perché nello Stato estero in cui ha sede il server il fatto (diffamazione aggravata) non costituisce reato ma solo illecito civile». 
In assenza dell’indirizzo Ip, ossia l’Internet protocol address, non si può che assolvere «anche se tutto coincide con la sua persona, nome, cognome e indirizzo anagrafico». Foto del profilo, relazioni, famigliari e qualsiasi altro genere di informazione. 

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