Centro storico, intervista ad Antonio Romano: «Lecce è un brand: diamogli l'appeal di una città d'arte, non di una moda»

Centro storico, intervista ad Antonio Romano: «Lecce è un brand: diamogli l'appeal di una città d'arte, non di una moda»
di Leda CESARI
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Giovedì 5 Gennaio 2023, 14:36 - Ultimo aggiornamento: 6 Gennaio, 20:15

Problema irrisolvibile della modernità o opportunità da cogliere, previo adeguato ragionamento lungo? Sui borghi antichi e sul rischio di una deriva consumistica che già si intravede da tempo - anche a Lecce - Antonio Romano, designer salentino di fama internazionale, è ultimativo: non c'è posto, su questi argomenti, per ambiguità di sorta. «Chi ha ruoli operativi su queste tematiche deve finalmente decidere del posizionamento futuro delle città. Lecce è ormai un brand: facciamo in modo che abbia l'appeal di una capitale d'arte, non di un fenomeno di moda».

Auto in luoghi impropri, eccessi di ristoranti e b&b, angoli di vandalismo e sporcizia. Ma i centri storici non erano il fiore all'occhiello delle città?

«Guardi, non possiamo fare processi alla Storia, perché nessuna epoca è infallibile; fra cinquant'anni saremo noi ad essere processati dai posteri per sprechi ed errori. Però qualche considerazione banale si può fare, e parto da una domanda. Roma, il luogo in cui vivo da quarantasei anni, è una città bellissima: qualcuno può forse contraddirmi? Ovviamente no. Ma di quale Roma stiamo parlando? Faccio un esempio personale. Io vivo in piazza Barberini, quindi in pieno centro, e posso per esempio testimoniare il disagio della mia e di altre due famiglie costrette a fare i conti con la raccolta in-differenziata di chi frequenta gli altri appartamenti del palazzo, tutti b&b, dove chi li gestisce non ha interesse a farla, e chi ci sta per cinque giorni neppure: alla fine tocca a noi passare intere serate a separare il tutto.

Questo per dire che spesso e volentieri norme e regolamenti non tengono conto dell'elemento propulsivo della vita nei centri storici rappresentato dai residenti, non certo da chi consuma il borgo antico per cinque giorni al massimo. Perché questo sta accadendo: stiamo trasformando i nostri borghi antichi in luoghi da consumare nella maniera più bieca».

Inesorabilità della modernità?

«Non direi. Città intelligenti come Parigi hanno risolto al loro affacciarsi, con limiti agli affitti e tasse speciali, certe distorsioni che purtroppo affliggono tutte le città d'arte d'Italia, Lecce compresa. Pensate alla differenza di ciò che sta accadendo tra Roma e Milano: la seconda agone in cui si stanno sfidando i migliori architetti e designer da tutto il mondo, in una ricorsa virtuosa a fare sempre meglio; la prima vittima di un incantesimo che non si riesce a spezzare, con la gente che mangia negli spazi aperti dei ristoranti con accanto i cassonetti dell'immondizia stracolmi e i negozi con i Colossei in vendita a un euro cadauno».

Questione di scelte.

«E insieme di senso di responsabilità e consapevolezza: perché quella milanese, per tornare alla mia contrapposizione di prima, è sempre collettiva, mentre quella meridionale è sempre individuale e si sconta spesso con la prima. Tornando quindi a Lecce, l'origine del nostro ragionamento, basta guardare la radice del nome: l'ecce-llenza. Bisogna quindi cominciare a selezionare la clientela; il buono per tutti non esiste. Un salto di qualità cui la città e il Salento devono iniziare a pensare seriamente: non dimentichiamo che sono venuti gli stranieri a comprare le nostre masserie e ad insegnare a noi indigeni la tutela del territorio. Chi va nei b&b, con tutto il rispetto, segue logiche diverse: di consumo, non di valorizzazione dello stesso».

E poi le botteghe artigiane che spariscono a vantaggio dei supermercati del gadget cinese e dei locali mangerecci, appunto.

«Un problema comune a qualsiasi altra città d'Italia: vai a vedere la chiesa, poi ti viene fame e ti vuoi riposare. È una logica universale, e d'altronde in vacanza non hai proprio voglia di cucinare. Aggiungo il fatto che ormai siamo quasi al punto di break-even tra pasti consumati in casa e fuori: sa cosa mi sono fatto portare io oggi per mangiare, ovviamente in ufficio? Sushi».

Lei è salentino di Maglie, città con un centro storico che non denuncia i problemi di quello di Lecce.

«È anche un dato dimensionale: Maglie ha poco meno di 15mila abitanti e non è mai stata una destinazione, se non per lo shopping. Lecce, invece, lo è ormai da tempo, e allora bisogna ragionarci su: cosa vogliamo che diventi? Quali sono gli elementi di valore da sottolineare? Bisogna leggere tra le cose che ha: Bilbao, per esempio, era una città fallita per via dell'acciaio e dei suoi cicli economici alterni, poi sono arrivati Frank Owen Gehry e il Museo Guggenheim, e a seguire geni come Norman Foster a riqualificare il tutto. A cambiare l'interpretazione della città, a ridare orgoglio anche ai residenti. Da noi, invece, mi pare non si vogliano confronti con i big player.... Scattano le gelosie, poi le contese politiche, poi i finanziamenti bloccati...».

A proposito di residenti dei centri storici, devono essere sempre e solo straordinariamente pazienti, decidere di andarsene - come fanno sempre più spesso: il centro storico di Lecce è di nuovo pieno di vendesi - o vanno comunque coinvolti attivamente nel processo di rifunzionalizzazione?

«Io direi che, per iniziare, le amministrazioni potrebbero decidere per esempio di essere meno tolleranti con i comportamenti incivili, tipo gli schiamazzi notturni e l'imbrattamento dei muri. E poi a stimolare il senso di identità e di appartenenza: noi non abbiamo piena consapevolezza dei patrimoni a nostra disposizione e abbiamo contemporaneamente voltato da tempo le spalle al futuro. E questo spiega trent'anni di declino del Paese».

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