Beatrice Casamassa, la prima donna capitano in Puglia. «Carabiniere per aiutare gli altri e dare un senso alla propria vita»

Beatrice Casamassa, capitano della compagnia di Gallipoli
Beatrice Casamassa, capitano della compagnia di Gallipoli
di Valeria BLANCO
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Lunedì 8 Marzo 2021, 12:55 - Ultimo aggiornamento: 20:32

Come in tutte le forze armate, anche nei carabinieri le donne si sono potute arruolare solo nel 2000. E a 20 anni da quella data storica, dallo scorso settembre la Compagnia dei carabinieri di Gallipoli ha un comandante donna: il capitano Beatrice Casamassa, 31enne romana, è anche la prima donna al comando di una compagnia nell'intera Legione Puglia. Una svolta epocale, un elemento di novità che, però, ha trovato il territorio preparato.

Capitano, cosa l'ha portata, dieci anni a fa, a decidere di voler indossare la divisa?
«Forse non è una storia molto romantica: alla fine del liceo, a dispetto di buoni risultati scolastici, non sapevo dove indirizzare queste risorse, ma sentivo l'esigenza di fare qualcosa di utile e gratificante in termini di soddisfazione personale.

Ho scoperto che un modo per dare un senso alla propria vita è migliorare quella degli altri. E ho deciso di voler diventare un carabiniere».

Essere donna, per giunta al comando, in un ambiente militare prevalentemente maschile, comporta qualche difficoltà in più rispetto ai colleghi uomini?
«Mi dispiace sfatare un mito, ma funziona come per i miei colleghi maschi, se non meglio. Al mio arrivo un elemento di novità indubbiamente c'è stato. All'inizio c'era, da parte di colleghi e collaboratori, qualcosa di molto simile alla timidezza, qualche difficoltà nelle regole d'ingaggio. Ma in questo il mondo militare ci facilita: essendo una struttura gerarchica i codici di comportamento non cambiano tra uomo e donna. Non ho mai avuto problemi di rispetto da parte dei militari e anzi la novità è stata percepita come un arricchimento».

In che senso?
«Gestiamo carabinieri, che sono persone e che si portano dietro problemi, frustrazioni e difficoltà che derivano dalla vita. Una sensibilità femminile spinge con maggiore scioltezza a raccontarsi, a sfogarsi e a raccontarsi e questo è un valore aggiunto sia nella gestione delle risorse che devono produrre sicurezza, sia nei casi in cui ci si approccia ai casi di violenza sui bambini o sulle donne». 

Come può influire la sensibilità femminile nel supportare le donne vittime di violenza e accompagnarle verso la denuncia?
«È importante avere personale femminile su tutti i livelli gerarchici perché sicuramente nell'approccio diretto la vittima è più aperta e meno imbarazzata con un'altra donna. Però, i numeri non sono dalla nostra: il personale nei carabinieri è per la maggior parte maschile, allora bisogna utilizzare le risorse femminili nella formazione. Ed ecco che il personale maschile, se ben formato, ottiene ugualmente buoni risultati. Spesso, ad esempio, il maresciallo è la prima figura maschile positiva che la donna incontra nel percorso verso la denuncia, ma deve essere capace di gestire il caso con una sensibilità diversa da quella che occorre per il furto di portafogli».

Nel suo precedente incarico, a Palermo, è stata coordinatrice della Rete antiviolenza dei carabinieri: un'esperienza replicabile anche nel Salento?
«Quella rete era una forma di organizzazione interna per affrontare la gestione delle violenze, con personale formato ad hoc e la condivisione delle esperienze tra le stazioni. Un modello che ha dato riscontri positivi e che è replicabile in tutte le realtà. Nel Salento, secondo il mio termometro, si è molto avanti come presenza di centri antiviolenza e collaborazione con le forze dell'ordine. In più, ho voluto che in tutte le stazioni della Compagnia sia presente la locandina del numero antiviolenza 1522. Serve a dire alle donne che c'è un'altra possibilità».

Con quali parole si può aiutare una donna che non trova il coraggio di denunciare una violenza?
«L'appello lo lancerei piuttosto al resto del mondo che sta a guardare, soprattutto in questo periodo di pandemia in cui per molte donne la casa si trasforma in una prigione. Chi è dentro la violenza può avere paura, ma per fortuna non viviamo in bolle di sapone: le urla si sentono anche ai tempi del covid, i lividi si vedono anche dietro una mascherina. Allora anche la rete di amicizie e parentele va sensibilizzata e si deve mobilitare».
 

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