Dall'alta moda alle mascherine con marcatura CE: «Sei milioni di pezzi al mese, ora export in tutto il mondo»

Dall'alta moda alle mascherine con marcatura CE: «Sei milioni di pezzi al mese, ora export in tutto il mondo»
di Pierpaolo SPADA
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Mercoledì 17 Giugno 2020, 08:20 - Ultimo aggiornamento: 10:21
Per trasformare l'intuizione in investimento ci sono voluti tre mesi, e una falsa partenza. Ora che anche macchinari e materiali sono al loro posto, produzione e commercializzazione di mascherine chirurgiche possono spiccare il volo. E senza troppo badare a confini e limiti temporali legati all'emergenza Covid, perché ora, adesso, Gda srl può esibire anche la marcatura Ce.

La validazione del ministero della Salute è arrivata martedì scorso. E nel giro di 24 ore sono stati avviati anche i primi contatti con la struttura nazionale per l'emergenza, coordinata dal commissario Domenico Arcuri. «Noi abbiamo trasmesso gli atti di conformità e loro ci hanno subito telefonato», spiega l'amministratore dell'azienda di Galatina, Pierluigi Gaballo. Un passo che può rivelarsi decisivo, dopo la richiesta e il rilascio della certificazione dell'Istituto Superiore di Sanità che ha consentito di produrre in deroga il dpi. E tra qualche giorno è attesa la certificazione ISO 9001, ulteriore garanzia per processo e prodotto. Certo, credere nel potere delle mascherine non è facile quando s'accede in una fabbrica che - pur con il 20% dei 280 dipendenti ancora in cassa - rappresenta da diversi anni un punto di riferimento per i più importanti fashion brand del mondo: «Al di là dell'emergenza italiana, va considerata quella degli altri Paesi e l'utilizzo che della mascherina chirurgica si farà in futuro. Pensiamo che quest'oggetto sia destinato ad accompagnare tutti per molto altro tempo. Ecco perché, dopo la parentesi di marzo, abbiamo deciso di dedicare un ramo d'azienda alla produzione di un dpi made in Italy e marcato CE, da mantenere attivo negli anni e magari accanto a un centro di ricerca. Il nostro vero obiettivo - spiega l'imprenditore - è, infatti, da un lato, produrre i materiali per realizzare le attuali mascherine chirurgiche, ma, dall'altro, produrre nuovi materiali per creare altre tipologie di dispositivi».

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Diversificazione, dunque. Una scelta quasi obbligata per fronteggiare i danni creati dalla pandemia, che ha costretto anche Gda a fermarsi e reinventarsi proprio nel momento in cui aveva raggiunto l'apice. Era, infatti, il 9 febbraio quando la Janelle Monaè sfilava sul red carpet della Notte degli Oscar con l'abito Ralph Lauren realizzato interamente nella fabbrica salentina con 168mila Swarovski e 200 metri di stecche a supporto. È giunto il tempo di cambiare, in attesa che nuova linfa rigeneri l'indiscusso core-business (lusso) di questa realtà. Spazio all'healt strategy. Si parte da un reparto ricavato al primo piano del terzo capannone di Gda, rilevato a gennaio e adibito a ricamificio. I tecnici lo stanno allestendo. Già pronti i macchinari: produzione, packaging e sanificazione. «Ne aspettiamo un altro, in tutto saranno 4. Li ho comprati in Cina, ed è stata un'impresa», confida Gaballo, «mi sono costati 700mila euro ma zero finanziamenti». Dovrebbero sfornare 200mila pezzi al giorno: «Circa 6 milioni al mese, che a regime - con altri due macchinari - saranno 10». La Gda Mask è un dispositivo medico di classe I/tipo II monouso e si compone di uno strato esterno in tnt spundbound (che conferisce resistenza meccanica alla mascherina), uno strato intermedio in tnt meltblown (funzione filtrante), uno strato interno in tnt spundbond (funzione protettiva per il volto senza contatto diretto con la cute), nasello in plastica anallergica ed elastici di tenuta.

Sui materiali si sta giocando una partita più ostica. Il meltblown oggi è introvabile. Ora Gaballo pensa anche alla possibilità di rivenderlo un domani: «Abbiamo già chiuso due mesi fa un contratto di fornitura da 700mila euro per tutto il 2020 e il 2021. Arriveremo a 16-20 tonnellate al mese. Se, poi, il materiale non mi servirà in queste quantità, dovrò essere pure bravo a smistarlo», dice.

Mercoledì sono arrivate le prime 10 tonnellate. Gaballo dice: «Acquisto da un produttore italiano, da due produttori cinesi e ora anche dalla Turchia. In Italia, il meltblown costa in media 42 euro al chilo, in Cina 41 ma, con il trasporto aereo, arriviamo a 60. Lo spundbound, invece, è più economico meno e arriva da Italia, Inghilterra e Grecia».

Un prezzo che fa riflettere. «Per produrne una mascherina ci vogliono 0,20-25 centesimi e noi - riferisce Gaballo - la venderemo a 0,30-40 centesimi». La convenienza? «Nella quantità - aggiunge - siamo già in contatto con la grande distribuzione: abbiamo appena firmato due contratti per fornire 1,5 milioni di pezzi al mese e ci stiamo attivando per il Mercato elettronico della pubblica amministrazione. Dalla Pa abbiamo ordini per circa 300mila pezzi. Contiamo di vendere tanti pezzi da fatturare, in fase iniziale, almeno 6 milioni di euro». Non è poco: «Chissà, magari le mascherine ci consentiranno di compensare almeno una parte delle perdite che da luglio si stimano nel lusso. In fondo le stiamo producendo anche per questo».
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