Eurispes 2021: 53% lavoratori vorrebbe continuare in smart working. Dal Mezzogiorno solo 10,3% export nazionale

In smart working il 49% dei lavoratori
In smart working il 49% dei lavoratori
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Giovedì 13 Maggio 2021, 13:07

Lo smart working o lavoro agile, nuova frontiera dell'impiego in tempi Covid, ha coinvolto il 49% dei lavoratori italiani, per lo più nel sud del Paese (31,8%). Le categorie maggiormente interessate nella nuova modalità di prestazione lavorativa, riporta Eurispes, sono invece quelle di dirigenti e impiegati, attivi per lo più all'interno degli stessi orari d'ufficio precedentemente conosciuti. Ma sebbene il lavoro agile abbia riscontrato dapprima perplessità nel mondo occupazionale, ad oggi ben il 53% dei lavoratori vorrebbe continuare a operare da remoto. Criticità della didattica a distanza, ruole del Mezzogiormo nell'esportazione del Made in Italy e molti altri ancora sono i temi e i trend emergenti messi in luce dal rapporto Italia 2021 di Eurispes.

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SMART WORKING PER 49% LAVORATORI - Tra coloro che lavorano, quasi la metà (49%) lo ha fatto in smart working dall'inizio dell'emergenza sanitaria: il 22,8% sempre o per un lungo periodo, il 26,2% occasionalmente/con turnazione/per un breve periodo. Il 4,9% degli intervistati dichiara che già lavorava in questa modalità prima della pandemia, mentre il 46,1% risponde negativamente. Emerge dal Rapporto Italia 2021 dell'Eurispes presentato oggi. Con il dilagare della pandemia da Covid-19 molte aziende, soprattutto di grandi dimensioni, hanno infatti optato per lo smart working, a tutela propria e dei propri dipendenti, come indicato anche dal governo con decreto ministeriale (almeno il 50% del personale in smart working nell'amministrazione pubblica per le mansioni che lo consentono ed una raccomandazione in questa direzione alle aziende private). Applicato come misura emergenziale, ha assunto nell'ultimo anno nel nostro Paese molte forme diverse: totale, parziale, spesso alternato alla presenza in ufficio, regolato in base all'intensificarsi o all'attenuarsi dei contagi. Prevale una modalità organizzativa 'intermedia', fatta di frequentissime videoriunioni e webinar, ma anche, per molti, inserita all'interno di una vita familiare rivoluzionata dall'emergenza sanitaria e, dunque, con figli a casa di cui aver cura e spazi domestici da ritagliare anche con difficoltà.

 

SOPRATTUTTO TRA IMPIEGATI E DIRIGENTI - La professione svolta incide, inevitabilmente, sulla possibilità o meno di lavorare a distanza.

Con l'emergenza sanitaria hanno usufruito dello smart working la maggioranza degli impiegati (66,2%), dei dirigenti/direttivi/quadri (65,1%, ben il 46,3% sempre o per un lungo periodo), dei liberi professionisti (62,4%). Valori non trascurabili riguardano lavoratori autonomi (45,6%), imprenditori (41,8%) e Forze dell'ordine/militari (37,5%). Le percentuali più basse si trovano, comprensibilmente, tra operai (12,4%) e commercianti (13%). Lavoratori autonomi e liberi professionisti fanno registrare le quote più alte di soggetti in smart working già prima dell'inizio della pandemia (rispettivamente il 12,6% e il 10,3%).

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MAGGIORANZA AL SUD - La pandemia ha portato a lavorare a distanza soprattutto i residenti al Sud (il 31,8% sempre o per un lungo periodo, il 25,2% in modo temporaneo) ed al Nord (al Nord-Ovest 24,2% sempre e 28,4% temporaneamente; al Nord-Est 22,4% e 26,5%). Lo smart working ha dunque coinvolto la maggioranza dei lavoratori al Sud ed al Nord-Ovest, mentre la quota più contenuta si registra nelle Isole, dove il 12,8% già lavorava in questa modalità ed il 50% non la ha adottata neppure con l'arrivo della pandemia. Intermedia la posizione dei lavoratori del Centro Italia: 4 su 10 hanno iniziato a lavorare in smart working (13,8% sempre, 27% temporaneamente od occasionalmente), il 55% non lo ha fatto neppure in emergenza.

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53% VUOLE CONTINUARE IN SMART - Interrogando coloro che hanno sperimentato lo smart working sulle loro preferenze per il futuro, emerge come la maggioranza, potendo scegliere, quando sarà terminata l'emergenza sanitaria vorrebbe alternare lavoro da casa e lavoro in presenza (53%), non abbandonando il lavoro agile; il 28% vorrebbe interrompere lo smart working, mentre il 19% vorrebbe continuare a lavorare sempre da casa, Emerge dal Rapporto Italia 2021 dell'Eurispes presentato oggi. Il lavoro a distanza viene valutato dunque favorevolmente dalla maggioranza, ma soprattutto in alternanza al posto di lavoro, per godere dei benefici di entrambe le situazioni.

DAD CRITICA ANCHE PER ETÀ MEDIA DEGLI INSEGNATI - Minor presenza di feedback da parte degli allievi; un'eterogenea competenza multimediale degli alunni; socializzazione difficoltosa; difficoltà del docente a saper gestire i passaggi temporali in classe; maggior possibilità di distrazione. Sono queste la maggior parte delle difficoltà riscontrate da llunni e studenti durante lo svolgimento della Dad. È quanto rileva il rapporto Italia 2021 dell'Eurispes sulla nuova modalità di didattica a distanza. Ciò è accaduto perché, per la prima volta dalla nascita dell'istituzione scolastica statale, le scuole hanno dovuto erogare le proprie prestazioni formative in modalità totalmente online e per l'intera classe. Alcuni istituti hanno cercato dunque di andare oltre alle tecniche di DaD e di accogliere le indicazioni dell'agenzia Indire che, dopo anni di ricerca,ha realizzato e sperimentato prodotti dedicati a docenti e studenti per migliorare l'esperienza didattica.Tuttavia, molti docenti italiani hanno sperimentato non solo le già succitate difficoltà di natura gestionale della classe, ma anche distanza verso l'utilizzo di strumenti digitali in gran parte sconosciuti, e ciò potrebbe essere stato una conseguenza della fisionomia del corpo docenti italiano: è la stessa Ocse2 a dichiarare che l'Italia ha la quota più alta di docenti ultra 50enni tra i paesi dell'Ocse, ovvero il 59%. L'età media degli insegnanti italiani, infatti, è 51 anni, mentre in Spagna si scende a 44 e in Francia a 41. Inoltre, i docenti ultra 54-enni titolari di cattedra (dunque a tempo indeterminato), rappresenterebbero, secondo il Miur stesso il 47,5%.

 

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DAL MEZZOGIORNO SOLO 10,3% EXPORT NAZIONALE - Secondo i dati Eurispes, ad oggi solamente il 10,3% dell'export nazionale è rappresentato dalle regioni del Mezzogiorno. Al contrario, le prime 5 regioni esportatrici (Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte e Toscana) rappresentano oltre il 70% delle esportazioni totali dal nostro Paese. Le sole esportazioni dalla Lombardia, che con 127.488 miliardi di euro è la prima regione per valore dell'export, valgono più del doppio delle esportazioni del Mezzogiorno che si fermano a 50 miliardi di euro. Anche la propensione all'esportazione di beni e servizi al Sud (13,1%) risulta essere pari alla metà della media nazionale (26,1%). 

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APATIA EFFETTO COVID FRA I GIOVANI - Che impatto ha avuto la pandemia e tutte le sue conseguenze sulla vita di ogni giorno sul sistema di valori dei giovani? Dal Rapporto Italia dell'Eurispes un primo elemento generale emerge con chiarezza: «una sorta di 'apatia dei valorI'. Quasi tutti i valori ai quali nel recente passato i giovani davano importanza rispetto al sistema dei valori dominanti hanno registrato un calo sostanziale», si legge nel documento che entra nel dettaglio. «Il massimo degrado si osserva nella serie dei valori etici che comprende l'orientamento degli individui a interagire con la società. Un netto crollo, rispetto alle rilevazioni degli altri anni, è registrato nella posizione dei valori come 'una vita onestA' (-22,5%), 'il rispetto della leggE' (-21,2%), 'seguire ideali, princìpI' (- 19,4%), 'indipendenza personale, libertà' (-19%), una posizione, quest'ultima, che può essere messa in relazione alle misure di restrizione delle libertà di movimento applicate dalle autorità pubbliche in periodo di crisi pandemica». 

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CRESCE FENOMENO LITTLE BABY STAR DEL WEB - Nell'immaginario collettivo i bambini devono solo fare i bambini: giocare, andare a scuola, fare sport, cose da bambini appunto. Niente di più lontano dai baby influencer, i bambini più seguiti del web (soprattutto Instagram, Tik Tok e YouTube), capaci di fare tendenza grazie a like, visualizzazioni e commenti, vero e proprio fenomeno dei social media e quindi del marketing moderno. E le baby star non sono più solo figli di celebrità. Ci sono bambini che sono riusciti a costruire una propria community fedele senza l'aiuto di profili IG (Instagram) già affermati. «Ovviamente, come si può immaginare, non sono certo i bambini a gestire direttamente i propri profili e a contrattare con i brand con cui collaborare». Ma i loro genitori.

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Il tema è divisivo: «se da una parte c'è chi approva, dall'altra sono in molti a ritenere che questa forma di esposizione rappresenti un vero e proprio sfruttamento dell'immagine del bambino che lo espone, inoltre, a rischi dai quali non sempre è possibile tutelarli. D'altronde il mercato che li riguarda è in crescita esponenziale: PwC Kids Digital Media Report 2017 stima che il mercato globale della pubblicità digitale per bambini avrà un valore di 1,7 miliardi di dollari entro il 2021 (pari al 37% della spesa pubblicitaria totale per bambini) mentre il Kids Digital Advertising Report 2017 prevedeva che le attività di influencer marketing svolte da bambini, sarebbero aumentate nel 2020 fino a rappresentare il 28% di tutto il marketing svolto sui social. Inoltre, «si calcola che oltre 170.000 bambini vanno online per la prima volta ogni singolo giorno». Il pubblico dei baby influencer è principalmente costituito da mamme, ma in realtà le baby star attraggono anche giovani, adolescenti e personaggi famosi. Così sempre più spesso i bambini diventano brand ambassador. Soprattutto di giocattoli e i loro coetanei passano buona parte del loro tempo libero a visualizzare sui social «spot promozionali 'travestitI' da video-recensioni».

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