Silvia Romano, nascosta 72 ore su un trattore: il blitz dopo il riscatto in Qatar

Silvia Romano, nascosta 72 ore su un trattore: il blitz dopo il riscatto in Qatar
di Cristiana Mangani
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Martedì 12 Maggio 2020, 09:14 - Ultimo aggiornamento: 10:38

È una fitta rete diplomatica e di intelligence quella che si è mossa per arrivare alla liberazione di Silvia Romano. Sono coinvolti paesi come la Turchia, la Somalia, il Qatar e, naturalmente l'Italia. Ed è il 5 maggio il giorno in cui tutto si sblocca.
Nei 18 mesi di prigionia, la giovane cooperante viene tenuta in custodia da due gruppi appartenenti ad al Shabaab, tre per gruppo. Uno di loro parla un po' di inglese, ed è quello che si occupa più di tutti di comunicare con la ragazza. Martedì scorso, l'uomo entra in casa e dice a Silvia: «L'operazione per noi è conclusa. Cambiati, ti portiamo via». La volontaria italiana si trova nella zona di Jubaland, nella parte meridionale del paese, a sud del fiume Giuba. I rapitori la fanno salire su un trattore, a ridosso di una campagna, e si mettono in viaggio. Silvia resterà su quel mezzo per tre giorni con uno dei rapitori, mentre sul territorio sono in corso vere e proprie alluvioni. Fino alla sera tra l'8 e il 9 maggio, quando una macchina con a bordo uomini dell'intelligence, arriverà nel luogo concordato. La cooperante viene presa in consegna da tre pesrone e portata nel compound delle Nazioni Unite, a Mogadiscio. Chi sia concretamente a prelevarla non è chiaro, si parla di forze speciali composte da 007 turchi e italiani, insieme con quelli somali, ma anche di figure istituzionali.

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LO SCAMBIO
La liberazione arriva dopo che un'altra trattativa, ancora più delicata, viene effettuata in Qatar, dove sembra che sia stato gestito lo scambio del denaro, ovvero il pagamento del riscatto. La cifra pagata dovrebbe aggirarsi intorno al milione e mezzo, ma nella somma non sono comprese le spese per ottenere le informazioni su dove Silvia si trovasse. A cominciare da quei video che servono a confermare che sia viva. Ne sarebbero stati girati tre: uno a maggio, l'altro ad agosto, il terzo il 17 gennaio. Le immagini sono state realizzate con un telefonino che, con molte probabilità, potrebbe essere stato usato proprio dall'uomo con cui la giovane era solita comunicare, forse il capo fazione. Dice che è viva e dà precisi riferimenti al periodo, qualcosa che serva ad attestarne l'autenticità.
 
 

Ora della liberazione sono in tanti ad attribuirsi la paternità. L'Italia ha riconosciuto sin dal primo momento quanto sia stata importante la collaborazione degli 007 del Mit turco, visto che sono stati ringraziati ufficialmente dal premier Giuseppe Conte, insieme con quelli somali. Ieri, però, l'agenzia di stampa Anadolu ha diffuso una foto di Silvia con un giubbotto antiproiettili con la Mezzaluna e la stella della bandiera turca, quasi a sottolineare che il salvataggio fosse tutta opera loro. Una immagine che fonti di intelligence italiane definiscono un fake. La cooperante - dicono - è stata liberata dagli 007 italiani «con quello stesso giubbotto che si vede nella foto, che è dotazione rigorosamente italiana e che le è stato fornito nell'immediatezza senza alcun simbolo». Inoltre, fanno ancora presente, «gli uomini dell'intelligence italiana che hanno compiuto l'operazione di liberazione sono gli stessi che nel novembre 2018, 48 ore dopo il sequestro, sono immediatamente stati inviati in territorio keniota dove, in collaborazione con le forze locali, hanno iniziato le operazioni di ricerca».

GLI INTERESSI
Ma come si sa gli interessi in gioco sono tanti. E in questo caso, il favore fatto dai turchi all'Italia potrebbe essere legato, in qualche modo, alla posizione che Ankara ha in Libia e in Somalia. A cominciare dai legami con Tripoli e il governo di Fayez al Serraj.
Sempre ieri, il più diffuso giornale keniano, il Daily Nation, ha citato come inizio dell'indagine, un incontro avvenuto a luglio dello scorso anno a Roma, durante il quale sarebbe stata formata una squadra investigativa italo-keniana. Erano presenti il direttore della Procura pubblica (Dpp) Noordin Haji e quello delle Indagini criminali (Dci) George Kinoti, insieme con il procuratore generale Giovanni Salvi e il pm titolare dell'inchiesta, Sergio Colaiocco. Nell'articolo si sostiene che «una combinazione di errori e ritardi da parte del governo keniano nelle ore successive al rapimento avevano consentito ai sequestratori di arrivare a Garissa prima di passare in Somalia»: la polizia è giunta sul posto «due ore dopo il fatto» e un veicolo militare è stato dislocato in aiuto alle ricerche solo «il giorno dopo a mezzogiorno».

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