Mogol racconta Lucio Battiti: «Lui era come me. Non ci piacevano i riflettori»

Gianmarco Carroccia e Mogol lunedì al Teatro Dal Verme
Gianmarco Carroccia e Mogol lunedì al Teatro Dal Verme
di Ferruccio Gattuso
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Venerdì 31 Gennaio 2020, 06:10 - Ultimo aggiornamento: 10:08
“Emozioni”. Non poteva intitolarsi in altro modo lo spettacolo di lunedì al Teatro Dal Verme. Sul palco Mogol, l’immenso autore, il cantante Gianmarco Carroccia e un’orchestra di sedici elementi. Insieme danno vita a un viaggio in parole e musica tra le canzoni della ditta Battisti-Mogol. Coppia incontratasi per caso, capace di segnare nuovi confini per la canzone italiana, perché se Battisti introduceva fusioni armoniche tra melodia nostrana e America, Mogol sfidava immaginazione e orecchio del pubblico con storie e aggettivi anticonformisti. Brani come “Mi ritorni in mente”, “La collina dei ciliegi”, “Il mio canto libero”, “Il nostro caro Angelo” sono lì a raccontare una storia che non è come tutte le altre.

Mogol, sono più di vent’anni che Lucio ci ha lasciati: qual è il primo pensiero che la attraversa quando si lascia andare ai ricordi?
«A quando ci imbattemmo uno nell’altro».

Come e dove avvenne il vostro incontro?
«A Milano, città delle etichette discografiche, 1965. A metterci uno di fronte all’altro fu una ragazza di nome Christine Leroux, un’editrice musicale francese. Fu lei ad accompagnare Lucio da me. Come andò? La verità è che avevo sentito un paio di pezzi di Battisti e non li avevo trovati un granché. E glielo dissi. Ma non mi chieda titoli perché dopo tanti anni la memoria non è precisa».

Poi però la scintilla scoccò.
«Fu naturale. Io mi fidavo di lui e lui, ciecamente, di me. Mi portava le musiche e io, solo dopo averle ascoltate, partorivo i testi. Ho sempre lavorato così: le parole devono nascere dalle suggestioni musicali. La cosa che mi stupiva di Lucio è che il giorno dopo che gli avevo consegnato il testo, lui lo sapeva a memoria e lo interpretava nel modo giusto, dimostrando di avere un grande rispetto per il mio lavoro».

E lei, quando si rese conto di saper scrivere canzoni?
«Nessun colpo di scena. Man mano che lavoravo. L’inizio è faticoso in qualsiasi professione, richiede applicazione. Si imparano le regole: le sillabe, gli accenti, la metrica».

C’è un autore e collega che lei stima più altri?
«Gianni Bella, davvero bravo con le parole, senza contare che è anche compositore».

Lei e Battisti siete sempre stati particolarmente riservati: anche in questo fratelli d’arte?
«Sì. Non abbiamo mai cercato i riflettori. Sapevamo bene che il destino fa passare tutto, successi e cadute».

Quando nasceva una vostra canzone, intuivate già le possibilità di successo?
«Sa dove andavamo a testarle? All’Istituto Tumori, qui a Milano. Erano i pazienti ad ascoltarle in anteprima. Ascoltavamo i loro giudizi: erano i più sinceri, per molti motivi».

Qual è il luogo dove preferisce scrivere?
«Il luogo non conta. Un testo mi nacque in testa mentre ero al cinema, al buio, ascoltando una colonna sonora. Conta il momento: al mattino appena sveglio. Scrivere richiede concentrazione e determinazione».

E la scelta di Gianmarco Carroccia?
«Basta una canzone per capire. Grande interprete, timbro molto simile a quello di Lucio. E poi la grande orchestra alle sue spalle. Io racconterò aneddoti, a loro spetta la musica».

Sanremo è alle porte. Lo guarderà?
«Non lo so dire. Se capiterà, ascolterò cosa c’è di buono».

E le polemiche di questi giorni le ha seguite?
«Assolutamente no». 
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