Dalla Milano da bere, frenetica, sempre accesa, sempre di corsa, alla Milano delle serrande abbassate. Dove tanti locali hanno chiuso per sempre, annientati dai lockdown, dalle restrizioni anti-Covid, e dall’obbligo di chiudere alle 18.
ATTIVITÀ CESSATE. Secondo il rapporto di inizio aprile del centro studi della Fipe (Federazione italiana pubblici esercizi) di Confcommercio, a Milano e provincia, si registrano, nel 2020, ben 567 cessazioni di attività, fra bar e altri esercizi di somministrazione bevande, dalle caffetterie ai pub serali (in tutto circa cinquemila nella Città Metropolitana). E parallelamente si è visto il crollo nella nascita di nuove realtà, perché pochi hanno il coraggio di provarci: solo 166. Il Covid ha colpito duro la categoria. C’è chi è fallito. Chi al momento non apre, nemmeno nella Milano arancione, perché non ne vale la pena. Chi sta ancora pensando al da farsi. Chi invece tiene duro e la saracinesca la alza, anche se segnato nel portafoglio.
BILANCIO. «Un settore in ginocchio da un anno di restrizioni anti-Covid senza ristori adeguati - commenta Carlo Squeri, segretario di Epam, l’associazione dei pubblici esercizi di Milano - sul fronte delle cessazioni il fenomeno è più accentuato in città che in provincia per i costi fissi insostenibili, in primis gli affitti altissimi.
CHIUSI PER SCELTA. La zona arancione è la prima tappa di quella rincorsa alla normalità che si sta costruendo. Per i bar tuttavia non cambia molto, perché è consentito solo l’asporto e la consegna a domicilio. Uno spiraglio si potrebbe vedere con la gialla (possibile in base al governo dopo il 30 aprile), ma anche allora, secondo Epam, «circa il 30%, ovvero tre su dieci, non apriranno per loro scelta». Perché lavorare a mezzo servizio non conviene, visto che alle 18 devono comunque chiudere al pubblico. «È un disastro: di giorno, siamo abbastanza vuoti, perché gli uffici sono per lo più in smart working; e bloccarci alle 18 è un durissimo colpo, perché perdiamo il guadagno serale, dall’aperitivo alla cena, che rappresenta il 75% del fatturato», spiega Fabio Acampora, vicepresidente Epam. «Ci accontenteremmo di tornare alle regole della scorsa estate, per poter riaccogliere i clienti e recuperare tanto basta per proseguire nel nostro lavoro. Con il coprifuoco spostato alle 23».
PERDITE. Ogni settimana di chiusura costa molto caro alle attività commerciali di Milano e hinterland: ogni sette giorni perdono, secondo una stima di Confcommercio, 290,2 milioni di euro. Il calo di fatturato per i ristoratori è di almeno l’80% rispetto all’era pre-virus.