Imane Fadil, l'ultimo sfogo in aula: «Tutti sanno, nessuno parla». Sette giorni dopo, il malore

Imane Fadil, l'ultimo sfogo in aula: «Tutti sanno, nessuno parla». Sette giorni dopo, il malore
di Claudia Guasco
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Martedì 19 Marzo 2019, 07:56 - Ultimo aggiornamento: 13:23

Imane Fadil comincia a sentirsi male attorno al 20 gennaio. E dalla sua ultima uscita pubblica non è trascorsa nemmeno una settimana: il 14 gennaio si presenta al processo Ruby ter e la sua costituzione di parte civile viene respinta. Lei è arrabbiata: «Tutti sanno, nessuno parla. Aspettano che gli altri lo facciano. Ebbene io l'ho fatto, che cosa succede adesso?». Purtroppo non lo scoprirà mai, perché il 29 gennaio viene ricoverata all'Humanitas e all'alba del primo marzo muore.

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SFRATTATA DA CASA
Ad accompagnarla all'ospedale di Rozzano è un amico di vecchia data, una persona alla quale era molto affezionata e a cui si rivolgeva nei momenti di difficoltà. Come è avvenuto nei suoi ultimi mesi di vita. La modella marocchina viveva in una cascina piuttosto malandata a Chiaravalle e il suo sogno era ristrutturarla, tuttavia non solo non disponeva dei fondi necessari ma non aveva nemmeno i soldi per pagare l'affitto. Così lo scorso luglio viene sfrattata e chiede ospitalità all'amico. Lui la accoglie, festeggiano Capodanno insieme, poi la situazione precipita. Imane accusa forti dolori al ventre, è sempre più magra, così lui la porta all'Humanitas e le sta vicino, assistendola nelle necessità pratiche. Le porta la camicia da notte di ricambio e lo spazzolino da denti, le fa compagna e la rassicura. I magistrati lo hanno già ascoltato due volte. «Nelle settimane precedenti al ricovero Imane era tranquilla, non era per nulla depressa o afflitta - ha riferito l'uomo - Anzi, era particolarmente combattiva e dopo l'esclusione come parte civile non aveva intenzione di gettare la spugna». I processi Ruby, per la modella trentaquattrenne, erano diventati quasi un'ossessione. Si presentava regolarmente in procura, dove la ricordano per le décolleté di Louboutin che erano la sua passione, e bussava alla porta dei magistrati: «Voglio giustizia. Sulle aule scrivono che la legge è uguale per tutti, ma non è così, perché sono otto anni che siamo qui», si indignava di fronte ai continui rinvii delle udienze.

La senatrice Maria Rosaria Rossi le offre 250 mila euro affinché rinunci alla costituzione parte civile, lei respinge la proposta indignata: «Ho rifiutato lavori e tentativi di corruzione per anni, non mi piego proprio ora». Quei soldi le farebbero comodo, dato che la sua carriera in televisione e nel giornalismo sportivo non è mai decollata. Nel 2009, dopo aver tagliato i ponti con quel mondo per due anni per stare accanto al fidanzato, torna single e riallaccia i contatti. Va a cena con Emilio Fede, incontra Lele Mora e varca i cancelli di Arcore. Partecipa a otto cene e nel primo processo, come testimone racconta tutto quello che ha visto. Ma nell'ultimo periodo ripete che ha ancora molto da dire su quelle serate a Villa San Martino e anche per questo non accetta l'accordo stragiudiziale con la Rossi: la obbligherebbe alla clausola del silenzio e invece lei vuole aggiungere nuovi particolari. Promette che scriverà tutto in un libro, sequestrato dai pm dopo la sua morte. Chi si aspettava notizie sensazionali però resterà deluso. Sono 150 pagine di riflessioni filosofiche e religiose sulla sua vita, in cui l'esperienza di Arcore occupa una parte importante ma senza particolari inediti.

L'ACCUSA PRIMA DI MORIRE
Il suo grande cruccio è restare inascoltata: «Noi parti civili siamo state lineari con la giustizia, perché crediamo nella giustizia, ma non possiamo dire lo stesso della giustizia. Sembra quasi che ci debbano un favore quando è propriamente il contrario». Oltre che indignata, poco alla volta si fa anche sospettosa e sempre più preoccupata. Tanto che è lei a mettere i medici dell'Humanitas sulla drammatica pista del veleno: il 12 febbraio viene fatto il test per l'arsenico, che dà risultato negativo, poi con il deteriorarsi progressivo dei suoi organi l'indagine si allarga ai metalli pesanti. La modella insiste: «Mi hanno avvelenato». E forse, prima di morire, ha fatto anche il nome di chi voleva farle del male. Ma su questo punto il capo della procura di Milano Francesco Greco non fornisce spiragli: «No comment», taglia corto.
 

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