Stato-mafia: Dell'Utri, Mori, De Donno e Subranni assolti in appello. Gli avvocati: «La trattativa? Una bufala»

Stato-mafia: Dell'Utri, Mori, De Donno e Subranni assolti in appello. Gli avvocati: «La trattativa? Una bufala»
Stato-mafia: Dell'Utri, Mori, De Donno e Subranni assolti in appello. Gli avvocati: «La trattativa? Una bufala»
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Giovedì 23 Settembre 2021, 18:04 - Ultimo aggiornamento: 21:18

La corte d'assise d'appello di Palermo ha assolto al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e il senatore Marcello Dell'Utri, accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato. In primo grado erano stati tutti condannati a pene severissime. Dichiarate prescritte le accuse al pentito Giovanni Brusca. Pena ridotta al boss Leoluca Bagarella. Confermata la condanna del capomafia Nino Cinà.

Per Bagarella i giudici hanno riqualificato il reato in tentata minaccia a Corpo politico dello Stato, dichiarando le accuse parzialmente prescritte. Ciò ha comportato una lieve riduzione della pena passata da 28 a 27 anni. Confermati i 12 anni a Cinà. Gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno sono stati assolti con la formula perché il «fatto non costituisce reato», mentre Dell'Utri «per non aver commesso il fatto». Confermata la prescrizione delle accuse al pentito Giovanni Brusca.

«È un'assoluzione di cui io e il collega che difende Giuseppe De Donno siamo stati sempre convinti. Finalmente la verità è venuta fuori a costo di sacrificio e di grande lavoro», dice l'avvocato Basilio Milio, legale del generale Mario Mori commentando la sentenza del processo sulla trattativa Stato-mafia. «Abbiamo sentito sia il generale Mori che De Donno e sono molto contenti. La sentenza stabilisce che la trattativa non esiste. È una bufala, un falso storico», ha aggiunto.

«Siamo felici perchè il nostro assistito è stato dichiarato estraneo a questa imputazione, dopo 25 anni di processi, in relazione al periodo successivo al '94», ha detto l'avvocato Francesco Centonze, legale insieme a Francesco Bertorotta e Tullio Padovani, dell'ex senatore Marcello Dell'Utri. «Questo è l'esito necessario alla luce delle carte processuali», ha aggiunto. «Dell'Utri evidentemente non è stato il trait d'union tra la mafia e la politica», ha concluso.

L'appello iniziato due anni fa

L'appello, nel corso del quale è stata riaperta l'istruttoria dibattimentale, è cominciato il 29 aprile del 2019. Nel corso del processo è uscito di scena, per la prescrizione dei reati, un altro imputato, Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo Vito, che rispondeva di calunnia aggravata all'ex capo della polizia Gianni De Gennaro e concorso in associazione mafiosa. A rappresentare l'accusa in aula sono stati i sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera che hanno chiesto la conferma della sentenza di primo grado.

Al termine del primo dibattimento, la Corte d'Assise aveva inflitto 28 anni a Bagarella, 12 a Dell'Utri, Mori, Subranni e Cinà e 8 a De Donno e Ciancimino. Vennero poi dichiarate prescritte le accuse rivolte al pentito Giovanni Brusca. Sotto processo, ma per il reato di falsa testimonianza, era finito anche l'ex ministro dell'interno Nicola Mancino che venne assolto. La Procura non presentò appello e quindi l'assoluzione diventò definitiva. Per la cosiddetta trattativa è stato, infine, processato separatamente e assolto, in abbreviato, l'ex ministro Dc Calogero Mannino.

«Uomini delle istituzioni, apparati istituzionali deviati dello Stato, hanno intavolato una illecita e illegittima interlocuzione con esponenti di vertice di Cosa nostra per interrompere la strategia stragista.

La celebrazione del presente giudizio ha ulteriormente comprovato l'esistenza di una verità inconfessabile, di una verità che è dentro lo Stato, della trattativa Stato-mafia che, tuttavia, non scrimina mandanti ed esecutori istituzionali perché o si sta contro la mafia o si è complici. Non ci sono alternative», aveva detto l'accusa durante la requisitoria del processo d'appello, al termine della quale aveva chiesto la conferma di tutte le condanne del primo grado.

Secondo i pm, il dialogo che gli ufficiali del Ros, tramite i Ciancimino e godendo di coperture istituzionali, avviarono con Cosa nostra durante gli anni delle stragi per interrompere la stagione degli attentati, avrebbe rafforzato i clan spingendoli a ulteriori azioni violente contro lo Stato. Sul piatto della trattativa, in cambio della cessazione delle stragi, sarebbero state messe concessioni carcerarie ai mafiosi detenuti al 41 bis e un alleggerimento nell'azione di contrasto alla mafia. Il ruolo di Mori e i suoi, dopo il '93, sempre nella ricostruzione dell'accusa, sarebbe stato assunto da Dell'Utri che nella sentenza di primo grado venne definito «cinghia di trasmissione» tra i clan e gli interlocutori istituzionali.

13 anni di indagini, nulla di fatto

La storia sarebbe cominciata dopo l'uccisione dell'eurodeputato Salvo Lima nel marzo 1992 e sarebbe entrata nel vivo tra l'attentato a Giovanni Falcone e la strage di via D'Amelio in cui morì Paolo Borsellino. In quella stagione sarebbero cominciati gli incontri riservati del comandante del Ros, Mario Mori, e del suo braccio destro Giuseppe De Donno con Vito Ciancimino. Per la Procura di Palermo da lì sarebbe partita la «trattativa» tra Stato e mafia. No, hanno sempre sostenuto i due ufficiali: quella era un'attività investigativa, che trova ora riscontro nella sentenza d'appello, con cui si mirava a fermare le stragi e a catturare Totò Riina. Le posizioni non sono mai cambiate sin da quando - era il 2008 - il caso è diventato un fascicolo giudiziario: 13 anni di indagini sfociate nell'assoluzione di investigatori e politici. Anche grazie alle dichiarazioni di Massimo Ciancimino (poi giudicato inattendibile in molte sue ricostruzioni), solo nove anni fa, il 29 ottobre 2012, la vicenda è approdata in dibattimento con l'udienza preliminare conclusa con il rinvio a giudizio di Riina e del cognato Leoluca Bagarella, di Bernardo Provenzano, Mori, De Donno, Massimo Ciancimino, Marcello Dell'Utri indicato come il tessitore politico della «trattativa», Giovanni Brusca, Antonino Cinà medico di Riina e postino del «papello» con le richieste dei boss, Antonio Subranni all'epoca capo di Mori. A giudizio era finito anche l'ex ministro Nicola Mancino ma solo per falsa testimonianza. Sarà assolto. Tra gli accusati c'era anche l'ex ministro Calogero Mannino dal quale tutto sarebbe partito: per l'accusa avrebbe innescato proprio lui la «trattativa» dopo avere ricevuto pesanti minacce dalla mafia. Mannino è però uscito di scena: ha scelto il rito abbreviato ed è stato assolto definitivamente in Cassazione l'11 dicembre 2020. Ô una sentenza che ha messo in discussione l'impianto del processo, come dicono ora anche i giudici di appello. In primo grado il dibattimento, presieduto da Alfredo Montalto, era cominciato il 27 maggio 2013 e si era concluso con condanne molto severe il 20 aprile 2018, quando Riina e Provenzano erano già morti. La pena più grave - ben 28 anni - era andata a Bagarella. E poi 12 anni per Mori, Subranni, Dell'Utri e Cinà, 8 per De Donno. La condanna a 8 anni di Ciancimino (calunnia) è già prescritta. Prescritte anche le accuse a Brusca. Per i giudici di primo grado la «trattativa» dunque ci fu ed era illegittima perché protagonisti erano uomini delle istituzioni e soggetti che «rappresentavano l'intera associazione mafiosa». Su questa tesi accusa e difesa hanno ingaggiato nel giudizio di appello, cominciato il 29 aprile 2019, un confronto molto serrato. E stavolta il verdetto è ribaltato. C'erano le minacce della mafia ma non la «trattativa». 

La sentenza

Ecco il testo del dispositivo del processo di appello al processo sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia, pronunciato dalla Corte di assise di appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino. «In parziale riforma della sentenza emessa dalla Corte di assise di Palermo in data 20 aprile 2018 - si legge - assolve De Donno Giuseppe, Mori Mario e Subranni Antonio dalla residua imputazione a loro ascritta per il reato di cui al capo A, perché il fatto non costituisce reato».

«Dichiara - prosegue il dispositivo - non doversi procedere nei riguardi di Bagarella Leoluca Biagio, per il reato di cui al capo A, limitatamente alle condotte commesse in pregiudizio del governo presieduto da Silvio Berlusconi, previa riqualificazione del fatto… come tentata minaccia pluriaggravata a corpo politico dello stato, per essere il reato così riqualificato estinto per intervenuta prescerizione. E per l'effetto ridetermina la pena nei riguardi di Bagarella in anni 27 di reclusione». «Assolve Dell'Utri Marcello dalla residua imputazione per il reato di cui al capo A, come sopra riqualificato, per non avere commesso il fatto e dichiara cessata l'efficacia della misura cautelare del divieto di espatrio già applicata nei suoi riguardi».

La Corte ha revocato le statuizioni civili nei riguardi degli imputati De Donno, Mori, Subranni e Dell'Utri e rideterminato in 5 milioni di euro l'importo complessivo del risarcimento dovuto alla Presidenza del Consiglio dei ministri. La Corte d'assise «conferma nel resto l'impugnata sentenza anche nei confronti di Giovanni Brusca e condanna gli imputati Bagarella Cinà alla rifusione delle ulteriori spese processuali in favore delle parti civili (Presidenza del Consiglio dei ministri, presidenza della regione siciliana, comune di Palermo, associazione tra familiari contro le mafie, centro Pio La Torre». La corte ha fissato in 90 giorni il termine per il deposito delle motivazioni. 

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