Johnny lo zingaro, il poliziotto ferito: «Dopo la fuga ho pensato al mio collega morto: a cosa è servito?»

Johnny lo zingaro, il poliziotto ferito: «Dopo la fuga ho pensato al mio collega morto: a cosa è servito?»
Johnny lo zingaro, il poliziotto ferito: «Dopo la fuga ho pensato al mio collega morto: a cosa è servito?»
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Mercoledì 9 Settembre 2020, 19:59
Trentatré anni fa, nella notte tra il 23 e il 24 marzo 1987, scampò ai colpi di Giuseppe Mastini, il bandito noto come 'Johnny lo zingaro' che è evaso dal carcere di Sassari e che è ricercato dalle forze di polizia di tutta Italia. Mauro Petrangeli porta ancora addosso i segni della notte che gli cambiò la vita. «Ho frammenti di osso nel cervello, ho dovuto subire diversi interventi alla testa, ho problemi alle mani, un'ulcera perforante che mi è venuta nel tempo un pò per la rabbia, un pò per lo stato d'animo, patologia che è collegata a quel fatto», ricorda all'AdnKronos oggi che non è più in servizio «perché la commissione medica ospedaliera mi ha messo in quiescenza per le lesioni e i danni avuti a seguito di questo conflitto».

Petrangeli aveva 23 anni e rimase gravemente ferito. Il suo collega e coetaneo, Michele Giraldi, fu più sfortunato: morì sotto i colpi sparati da Mastini. I due colleghi erano in servizio al commissariato Tuscolano. Erano i giorni in cui la polizia era mobilitata con tutte le sue forze alla ricerca del bandito che terrorizzava la città: Petrangeli e Giraldi notarono un'auto sospetta, una Fiat 128, e cominciarono a seguirla. «Stavamo svolgendo il turno di notte, '24-7' - ricorda Petrangeli -. Noi eravamo a bordo di una Panda civile perché la volante contrassegnata con i colori era guasta. Mastini aveva rapinato una 128 verde sulla quale viaggiava con la sua compagna, Zaira Pochetti, e Silvia Leonardi, la ragazza sequestrata precedentemente
».



«Individuammo la vettura, ma avevamo la foto segnaletica di un ragazzo con i capelli lisci e mori, mentre alla guida di questa 128 c'era un ragazzo con i capelli mossi e biondi. Non avevamo ancora i numeri di targa: seguimmo la 128 con l'intento di accertare successivamente se si trattava della vettura rapinata oppure no. Gli stavamo dietro, in una strada molto stretta in cui era impossibile sorpassare e bloccare la vettura: gli stavamo dietro con la Panda civile, ma noi avevamo la divisa, con le bande bianche. Mastini dallo specchietto si accorse di questo e a via Quintilio Varo posizionò la macchina di traverso, si mise nel lato guida con la Leonardi davanti, da scudo, presa con un braccio intorno al collo, e cominciò a sparare».

«Il primo colpo prese Giraldi direttamente sullo zigomo - continua Petrangeli -: mancandogli il respiro aprì lo sportello della macchina e cadde sull'asfalto. Il secondo colpo centrò me alla testa. A quel punto, invece di scappare visto che noi non potevamo avere alcun tipo di reazione, Mastini continuò a sparare: mi centrò con altri due proiettili, uno alla mano destra e uno alla sinistra, poi prese le armi e sparò nuovamente a Giraldi, prima di allontanarsi». Mauro restò per quasi sei mesi in ospedale, ma riuscì a farcela. Decise di continuare a lavorare in Polizia, ma soprattutto all'inizio non fu facile: «Fu dura riabituarsi a certi ritmi, affrontare situazioni analoghe operando sul territorio».



SEGNATO PER SEMPRE Il pensiero di quello che avvenne quella notte non ha mai smesso di tormentarlo: «È una cosa che ormai fa parte della mia vita. A distanza di tutto questo tempo, ho ancora difficoltà a passare nelle strade del Tuscolano. Non è facile. Passo però ogni tanto in via Quintilio Varo, sotto la targa che hanno dedicato a Michele e al parco intitolato a lui, all'Anagnina. Michele era un amico, lo stavo aiutando a trovare casa a Grottaferrata, ai Castelli, perché voleva sposarsi con la sua fidanzata. Era un ragazzo semplice, mi sento moralmente legato a lui».

Per questo quando Petrangeli ha saputo dell'evasione di 'Johnny lo zingaro' dal carcere di Sassari l'amarezza è stata tanta: «Amarezza, ma anche un senso di impunità che persone come questa sembrano avere. Sono le stesse sensazioni che ho provato nel 2014, poi nel 2017 e oggi ci risiamo. Che ergastolo è questo? Questo sistema andrebbe rivisto. Quali sono i criteri con i quali vengono concessi i permessi? Mastini è stato uno dei criminali peggiori che ho incontrato in tanti anni di carriera: lui quella sera aveva la possibilità con la 128 di allontanarsi prendendo il vialone di via Palmiro Togliatti e invece cercò lo scontro, il conflitto. Noi stavamo con una Panda, come potevamo raggiungerlo? Al massimo avremmo potuto segnalare la macchina. È un tipo freddo».



«Penso a un ragazzo di 23 anni che è morto in quel modo, a me che sono stato in coma e ho fatto 154 giorni di craniolesi al San Giovanni e dico onestamente: a che cosa è servito? A dare i permessi a questa persona? C'è quel senso di impunità che mi preoccupa. Consideriamo poi il grande dispendio economico che lo Stato affrontò per arrestare Mastini a Monterotondo: elicotteri, macchine, personale. Questa cosa mi dà da pensare sul sistema», continua Petrangeli.

"MI SENTO TRADITO DALLO STATO" «Se mi sento tradito? Mi sento personalmente tradito - aggiunge -. Dal ministero dell'Interno mi sarei aspettato una reazione diversa, almeno cercare di evitare che un soggetto del genere potesse ottenere un premio. I permessi dovrebbero essere dati con maggiore accuratezza, almeno per rispetto delle vittime e dei familiari che hanno subito un forte dolore». Difficile perdonare: «Negli anni passati era stata presentata un'istanza di grazia dall'avvocato di Mastini: mi convocarono anche al Quirinale per esprimere un'eventuale approvazione, ma personalmente dissi di no, che per me non era giusto dare la grazia.
E lo penso ancora», conclude Petrangeli.
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