11 settembre, il ricordo di Giovanni Floris inviato Rai a New York: «Un mix di terrore e solidarietà, e quell’ultimo taxi per la Storia»

Giovanni Floris, per la Rai a New York l'11 settembre 2001
Giovanni Floris, per la Rai a New York l'11 settembre 2001
di Valeria Arnaldi
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Venerdì 10 Settembre 2021, 06:00 - Ultimo aggiornamento: 11 Settembre, 16:23

Gli aerei contro il World Trade Center. Le persone imprigionate che chiedono aiuto. Poi il crollo. Le immagini dell’attentato alle Torri Gemelle, l’11 settembre 2001, sono ancora ben vive nella memoria collettiva, eppure domani sarà il ventesimo anniversario della tragedia. L’attacco all’America in diretta tv. Quel giorno a Manhattan c’era anche un giovane Giovanni Floris, giornalista per la Rai.

Come mai era a New York?

«Sostituivo il corrispondente Rai negli Usa, andato in ferie. Ero lì per il giornale radio, l’attentato ha segnato il mio debutto in tv. Ho capito subito che mi stavo confrontando con la storia, non con la cronaca».

Lei viveva a Manhattan.

«Sì, nella parte Sud, non lontano dalle Torri. La radio mi chiamò per fare la diretta, uscii subito per raggiungere la sede Rai, nella parte Nord. Presi l’ultimo taxi. Dal finestrino, vedevo file di persone in strada che andavano verso l’area opposta di Manhattan. C’era un clima di paura. Quando sono arrivato in Rai, hanno chiuso la parte sud. Mia moglie era ancora lì. All’epoca non si sapeva ciò che sarebbe successo. Si parlava di altri aerei».

Come ha vissuto quelle giornate?

«Lavoravo di continuo. Dormivo in redazione, facevamo turni di trentasei ore. Quando chiusero l’aeroporto c’erano pochi giornalisti nella zona, ci volle qualche giorno perché arrivassero inviati da tutto il mondo».

Quali immagini l’hanno maggiormente colpita, oltre a quelle della tragedia?

«Ricordo gli autobus che di notte, nelle strade deserte, giravano per Manhattan con le porte aperte, facendo salire e scendere le persone a un cenno, senza fermate.

E rammento il cordone di agenti intorno alla zona dell’attentato. Le persone desideravano aiutare e portavano cibo come se gli eventuali superstiti avessero bisogno di mangiare. Era una reazione emotiva, non potendo fare nulla, accatastavano viveri».

È rimasto in America come corrispondente, come l’ha vista cambiare?

«Poco dopo ci fu il dramma delle lettere all’antrace. Ero a Washington per un’inchiesta, andammo in un ufficio dove era stata recapitata una di quelle lettere. Dopo, furono lanciati appelli ai giornalisti entrati nella stanza e furono previste specifiche cure. Gli americani, con l’11 settembre, avevano imparato ad aspettarsi di tutto e si erano organizzati».

L’attentato ha segnato la politica di “esportazione della democrazia”, capitolo che pare essersi chiuso con l’abbandono dell’Afghanistan da parte degli Usa.

«In questi venti anni abbiamo perso la fiducia nella sicurezza personale, con l’11 settembre, poi nel benessere economico, con la crisi finanziaria del 2008, questo ha portato l’America a chiudersi sempre di più. Adesso siamo tutti così preoccupati del nostro piccolo mondo da non pensare più agli altri. Penso sia stato sbagliatissimo tentare di esportare la democrazia, ma anche che, se lo fai, devi darti tempo. La guerra in ex Jugoslavia è finita nel 1995 e siamo ancora lì».

Come ripensa all’attentato, oggi?

«Sono passati vent’anni ma, quando ne parliamo, sembra ieri».

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