Delitto di Garlasco, Alberto Stasi parla a Le Iene: «Togliere la libertà a un innocente è violenza»

Il 38enne, condannato per l'omicidio della fidanzata Chiara Poggi (avvenuto nel 2007), continua a ribadire la propria innocenza

Garlasco, Alberto Stasi a Le Iene: «Togliere la libertà a un innocente è violenza»
Garlasco, Alberto Stasi a Le Iene: «Togliere la libertà a un innocente è violenza»
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Lunedì 23 Maggio 2022, 16:14 - Ultimo aggiornamento: 17:10

Delitto di Garlasco, per la prima volta Alberto Stasi concede un'intervista a Le Iene. A sette anni dal suo arresto, e dopo una condanna definitiva, il fidanzato di Chiara Poggi torna a professarsi innocente.

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Lo speciale, dal titolo 'Delitto di Garlasco: la verità di Alberto Stasi' (una puntata interamente dedicata a uno dei casi di cronaca nera più discussi nel nostro Paese), andrà in onda domani, in prima serata, su Italia 1. Nell'agosto del 2007 una ragazza di 26 anni - Chiara Poggi - viene trovata morta nella villetta della sua famiglia in un piccolo e tranquillissimo paese in provincia di Pavia, Garlasco, dal fidanzato Alberto Stasi che viene da subito iscritto nel registro degli indagati.

Nel 2015, a otto anni dal delitto e dopo essere stato riconosciuto innocente per due volte, al quinto grado di giudizio viene condannato a sedici anni di carcere per averla assassinata brutalmente. «Perché ho deciso di parlare oggi? Per dare un senso a questa esperienza - dice Stasi alle Iene -perché certe cose non dovrebbero più accadere. Se una persona vive delle esperienze come quella che ho vissuto io questa deve essere resa pubblica, a disposizione di tutti, e visto che ho la possibilità di parlare lo faccio, così che le persone capiscano, possano riflettere e anche decidere, voglio dire, se il sistema che c'è va bene oppure se è opportuno cambiare qualche cosa.».

Dal carcere di Bollate dove sta scontando la sua pena Stasi parla con Alessandro De Giuseppe e Riccardo Festinese, per raccontare come, secondo lui, sarebbero andate le cose, in una lunga intervista in cui il trentottenne (ndr., ne aveva 24 anni all'epoca del delitto) si lascia andare parlando di Chiara, dei suoi genitori, dei magistrati, delle perizie, degli arresti che ha subito e dei processi, anche mediatici, che ci sono stati, approfondendo quelle che lui ritiene siano state storture, forzature ed errori che hanno portato alla sua condanna.

Ancora oggi, infatti, e, come sempre, Alberto Stasi si dichiara innocente. Tra le prime domande dell'inviato c'è quella del se sia stato lui a uccidere l'allora fidanzata. «Quando mi chiedono se ho ucciso io Chiara penso che non sanno di cosa stanno parlando», risponde Stasi. 

«Nell'immaginario comune - prosegue Stasi - un innocente in carcere è un qualcuno che soffre all'ennesima potenza. Per me non lo è, semplicemente perché la mia coscienza è leggera. Alla sera quando mi corico io non ho nulla da rimproverarmi. Certo, ti senti privato di una parte di vita perché togliere la libertà a una persona innocente è violenza, però non hai nulla da rimproverarti, l'hai subita e basta, non è colpa tua». Il racconto torna al suo primo interrogatorio e al suo primo arresto: «Ero spaventato ma anche abbastanza sereno, quella tranquillità di chi ha la convinzione di potere chiarire le cose. In quella notte l'accertamento era preliminare, puoi anche aspettare quello definitivo, perché hai fretta di portare in carcere una persona sulla base di un risultato ancora parziale? Non c'era motivo ma il meccanismo si era messo in moto: era stato emesso un provvedimento, i carabinieri erano arrivati, i giornalisti erano già fuori dalla caserma, mandare tutti a casa, in qualche modo, credo dispiacesse, e quindi venni accompagnato in carcere».

Della sua prima notte in carcere ricorda lo smarrimento ma anche la «premura», per lui un po' stonata, del direttore del carcere di Vigevano: «Quando fui scarcerato dopo quattro giorni, con un'ordinanza del giudice che smontava punto per punto quel provvedimento assurdo, il direttore (del carcere di Vigevano, ndr.) mi disse: 'Arrivederci fuori, spero che vada a dire in giro che l'abbiamo trattata bene'. È come se in quel momento la cosa più importante fosse solo avere il proprio ruolo a posto, non il fatto che una persona di 24 anni veniva portata in carcere. Lui era, in qualche modo, custode della mia persona però l'interesse doveva essere forse tutt'altro, non questo». «Credo che questo episodio abbia comunque segnato tutto il seguito della vicenda processuale - aggiunge Stasi - perché devi immaginarti il terremoto: la Procura di Vigevano aveva portato in carcere davanti a tutta Italia un ragazzo di 24 anni e adesso doveva spiegare il perché aveva sbagliato, e con loro anche i Ris di Parma, i quali avevano indotto il Pubblico Ministero a portare in carcere una persona sulla base di una relazione che era sbagliata».

Alberto Stasi parla poi delle indagini: «Sono passati 15 anni ma in quegli anni i Ris di Parma erano un pò mitizzati. La sera la gente guardava la televisione e li vedeva risolvere i delitti più complicati nel tempo di un episodio. Scoprire che in realtà le persone venivano portate in carcere sulla base di test che non distinguevano il sangue da una barbabietola, illuminava una situazione che si pensava diversa. Ecco perché dico che quel momento fu come un punto di non ritorno: non si trattava più di svolgere un'indagine ma si trattava di salvare la propria carriera, la propria reputazione. Questo poi ha comportato tutta una serie di conseguenze di inezie, di incapacità di tornare indietro, non so se mi spiego. Per ammettere i propri sbagli bisogna avere coraggio, carattere. Il Pm non è mai andato a dire 'Questo provvedimento era prematuro', perché poi l'accertamento definitivo risultava, appunto, negativo».

Alessandro De Giuseppe gli chiede se ha già progetti per quando uscirà dal carcere: «Oggi ho 38 anni e ho in mente di mettere a frutto tutte le esperienze negative che ho vissuto, un bagaglio conoscitivo che non può essere acquisito diversamente. Certe cose non le puoi metabolizzare se non le vivi. Se hai la fortuna, o sfortuna, a seconda del punto di vista, di vivere certe esperienze, acquisisci degli strumenti che puoi mettere a disposizione e io voglio fare questo. È un impegno diverso rispetto a quello che potevo desiderare quando avevo 24 anni, in cui volevo fare carriera nell'azienda più grande d'Italia, tanto per fare un esempio». E conclude: «Cosa vorrei dire ai giudici che mi hanno condannato? Non saprei perché sono, in qualche modo, e in negativo, i protagonisti di questa vicenda. È difficile arrivare alla mente e al cuore di quelle persone. Il loro non è un mestiere banale, ha conseguenze sulla vita delle persone, come un medico in sala operatoria: ci sono lavori che non comportano queste responsabilità, altri invece sì. Se si decide di intraprendere un certo lavoro, una certa carriera, deve essere fatto in modo coscienzioso perché poi anche lì entrano dinamiche normali, di lavoro. La carriera, l'ambizione, il posto in un'altra sede, tutte cose che non dovrebbero avere nulla a che fare con la giustizia».

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