Dolce & Gabbana: «Siamo come la Coca Cola. Il futuro dell'azienda? Lasceremo a famiglia e dipendenti»

Dolce & Gabbana: «Siamo come la Coca Cola. Il futuro dell'azienda? Lasceremo a famiglia e dipendenti»
Dolce & Gabbana: «Siamo come la Coca Cola. Il futuro dell'azienda? Lasceremo a famiglia e dipendenti»
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Lunedì 7 Ottobre 2019, 09:52

Dolce & Gabbana rappresenta l'Italia nel mondo ed è un punto riferimento per l'alta moda. I suoi fondatori hanno creato una realtà che dà lavoro a circa 25 mila persone, tra terzisti e fornitori. Ed è proprio ai dipendenti, oltre che alla famiglia, che passeranno l'azienda. «La nostra idea - spiegano in un'intervista al Corriere della Sera - è proprio di lasciare spazio agli altri che lavorano con noi, dipendenti e famiglia. Il mio modello è Hermès, dove la dinastia è tornata in forza al timone e non si è affidata ad altri stilisti. Oppure, in altro settore, come la Ferrero. Passano le generazioni e la famiglia resta. Noi lasceremo un Dna al nostro gruppo di lavoro, cioè ai nostri stilisti interni che sono il cuore dell’azienda e lavorano con la nostra piena fiducia. Poi c’è la famiglia, i fratelli di Domenico: Alfonso e la sorella Dorotea». 

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Non è ancora tempo di abbandonare, però. I numeri dicono che Dolce&Gabbana è arrivata a 1,349 miliardi di ricavi, l’80% all’estero con una rete di 220 negozi monomarca gestiti direttamente e 80 in franchising, più 300 clienti multimarca. L’ecommerce vale il 6%, ma puntano ad arrivare al 15%. Il merito va al loro rapporto duraturo e solido.  ​«C’è affetto, grande rispetto e stima. Abbiamo gli stessi occhi, vediamo le stesse cose, vediamo il ruolo dell’imprenditore nello stesso modo. E poi, noi siamo un po’ come la Coca Cola, non possiamo scindere i due nomi, da separati il nostro lavoro perderebbe senso», scherza Domenico Dolce.

«Siamo partiti con 2 milioni di vecchie lire - ricorda Stefano Gabbana -  mettevamo via i soldi per rinvestirli nell’attività, nel nostro progetto di bellezza. All’inizio ci consigliavano tutti di farci prestare i soldi dalle banche ma l’idea ci faceva paura. Così, tutto quello che abbiamo fatto lo abbiamo finanziato da soli e siamo molto felici. Arrivo da una famiglia semplice. Mia madre faceva la portinaia e mio padre l’operaio a Milano. Loro mi hanno tramandato valori forti che ho trasmesso all’azienda. Non immaginavamo di costruire tutto questo, volevamo solo confezionare dei bei vestiti, facendolo bene, con amore. Tutto quello che ci circonda lo abbiamo realizzato noi, dalle tazzine, ai quadri fino ai mobili e ai vestiti».

Una strategia che ha dato i suoi frutti. ​«Il punto di partenza è un modello di artigianato e industria, tradizione che cuce assieme innovazione, digitale e tecnologia. Diamo direttamente lavoro a circa 5.500 persone, che diventano circa 25mila con l’indotto». E tutto rigorosamente made in Italy: ​«C’è un trend nuovo, un ritorno dell’attenzione per l’artigianalità, lo si vede dall’interesse dei giovani per questo mestiere, molti di loro sono italiani. Fino a 5-6 anni fa era difficile trovarli. Allora all’interno del gruppo abbiamo creato le Botteghe di Mestiere, insegniamo a cucire, ricamare, stirare e la modelleria. Circa il 70-75% di quei giovani che hanno tra i 20 e i 25 anni vengono poi assorbiti in azienda. Abbiamo i nostri maestri interni e così teniamo in vita il mestiere e la tradizione».

All'Italia chiedono solo un po' più di sostegno a queste realtà lavorative: «Non chiediamo aiuti ma la semplificazione del lavoro, l’eccesso di burocrazia. Vorrei che si desse supporto agli artigiani che non riescono a campare. Sono loro che realizzano per i nostri abiti gli uncinetti, fatti a mano soprattutto nel sud dell’Italia. Ma sono talmente tassati che a volte ci dicono di non poter più lavorare per noi. Questo vuol dire rinunciare all’eccellenza, fare un regalo ai Paesi che ci copiano e perdere il vantaggio competitivo».

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