Coronavirus a Bergamo, il contagio partito dall'ospedale: la ricostruzione

Coronavirus a Bergamo, il contagio partito dall'ospedale: la ricostruzione
Coronavirus a Bergamo, il contagio partito dall'ospedale: la ricostruzione
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Giovedì 9 Aprile 2020, 19:55

Il coronavirus a Bergamo e in tutta la sua provincia ha lasciato una ferita capace di causare un dolore profondissimo non solo nelle comunità locali. Il dramma del contagio in Lombardia, che ha decimato la popolazione più anziana fino a stroncare quasi del tutto un'intera generazione, è stato capace di unire tutta Italia nel dolore. Un inquietante dossier, deciso per ricostruire la mappa e la cronologia del contagio, fa capire ancora una volta come dei piccoli focolai si sarebbero originati proprio nei reparti d'ospedale.

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Le zone della provincia di Bergamo più colpite dall'epidemia sono state, come è noto, quelle di Alzano Lombardo, Nembro e altri comuni limitrofi. Ed è proprio nel pronto soccorso e nei reparti dell'ospedale Pesenti Fenaroli che si sarebbe propagato il virus. Il Corriere della Sera riporta e analizza due report (del 3 e dell'8 aprile) della direzione dell'Azienda sociosanitaria territoriale di Bergamo Est, secondo cui ogni scelta sarebbe stata concordata con gli uffici della Regione Lombardia. L'analisi del quotidiano milanese mette in luce alcune pericolose sottovalutazioni dei rischi, ma non solo.

La relazione consente innanzitutto di stabilire che, con tutta probabilità, i primi contagi fossero avvenuti già all'inizio di febbraio: «Nel periodo compreso tra il 13 e il 22 febbraio sono giunti presso il pronto soccorso ad Alzano alcuni pazienti, successivamente ricoverati nel reparto di medicina generale, con diagnosi di accettazione polmonite/insufficienza respiratoria acuta». Si trattava in gran parte di anziani, con patologie pregresse e invalidanti, provenienti da Nembro e altri comuni limitrofi. In quel momento, nessuno di quei pazienti era stato sottoposto al tampone, semplicemente perché non ancora previsto dai protocolli del Ministero della Salute, che in quelle settimane limitava a casi specifici e molto circoscritti l'adozione di test contro il coronavirus. Nessuno di quei pazienti era infatti stato a Wuhan o aveva avuto contatti con persone provenienti dalla Cina: «In data 22 febbraio, in seguito all’evidenza del focolaio nel lodigiano, veniva acquisita la consapevolezza da parte dei clinici che tale criterio epidemiologico non era più da ritenersi totalmente attendibile, sebbene ancora non modificato».

I primi tamponi, ad Alzano Lombardo, vengono quindi fatti solo nella notte di sabato 22 febbraio, due giorni dopo la scoperta dei primi casi a Codogno. Tra il 20 e il 22 febbraio, la direzione sanitaria si era limitata ad effettuare screening sui pazienti, anche se fonti interne dell'ospedale avevano segnalato alcuni casi sospetti di polmonite interstiziale già a partire dal 10 febbraio. La direzione ospedaliera ha confermato che, all'origine dell'epidemia in provincia di Bergamo, c'è proprio il tempo trascorso tra il ricovero e la diagnosi: un tempo sufficiente a far propagare il virus all'interno dei reparti.

Le prime misure di sicurezza vengono prese quindi il 23 febbraio, ma ci sarebbero state anche alcune falle. La direzione dell'ospedale assicura di aver preso tutte le precauzioni possibili per tutelare il personale sanitario, i pazienti e i visitatori dell'ospedali. Molti parenti degli anziani deceduti prima e dopo quella data, però, raccontano di aver avuto libero accesso alle salme dei defunti, nelle bare ancora aperte, e di essersi radunati intorno a loro. La direzione dell'ospedale aveva vietato i contatti dei parenti con i defunti, ma aveva fatto marcia indietro dopo le proteste di alcuni familiari alla Regione. Il 2 marzo successivo, una nota della Regione Lombardia assicurava di ritenere sufficienti «precauzioni standard, sulla scorta delle richieste pervenute dal territorio». La circolare regionale che vieta ogni contatto con le vittime del Covid-19, «prima e durante l'attività funebre», sarebbe arrivata solo il 12 marzo.

Secondo la relazione dell'Asst di Bergamo Est, il focolaio si sarebbe originato tra Alzano, Nembro e altri comuni limitrofi come Villa di Serio, ma non all'interno degli ospedali. Eppure, al 25 febbraio, c'erano già sei persone ricoverate con sintomi riconducibili al Covid-19 e risultate positive al tampone. Nonostante l'evidenza del contagio, non era stato deciso di chiudere l'ospedale ed isolare la zona, come era avvenuto solo pochi giorni prima a Codogno. La data spartiacque resta comunque quella di domenica 23 febbraio: arrivano gli esiti dei tamponi e scatta l'allarme, con la chiusura e l'evacuazione del pronto soccorso di Alzano, revocata appena due ore dopo. La relazione nega che si trattasse di una vera e propria serrata: «Di concerto con gli uffici regionali competenti, mentre si valutavano misure opportune, si contattava telefonicamente la centrale Areu e si concordava di limitare i trasporti presso il Ps di Alzano. Tale “blocco” durava circa due ore. Veniva infine collegialmente deciso, con gli Uffici regionali, di garantire l’operatività del pronto soccorso alla luce della riflessione che l’epidemia si sarebbe manifestata in misura tale da non poter consentire di rinunciare a tale punto assistenziale».

Alla centrale Areu, responsabile degli interventi in ambulanza per tre province (Bergamo, Brescia e Sondrio), arriva una comunicazione più decisa: tutto chiuso a tempo indeterminato, impossible recarsi al pronto soccorso di Alzano. Quell'isolamento, tuttavia, dura appena due ore, a differenza di quanto accaduto a Codogno (con una sanificazione dei locali durata tre giorni). La relazione spiega ancora: «Le procedure di sanificazione sono state attuate secondo i protocolli esistenti...

appare fuori luogo giudicarli inappropriati in una situazione nella quale non esistono certezze ineccepibili». Eppure, come riporta ancora il CorSera, «nonostante la "collegialità", la riapertura risulta una decisione unilaterale della Regione».

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