«Papà, perché Europei e Olimpiadi sono datati 2020?». Lo strano caso dello sport

«Papà, perché Europei e Olimpiadi sono datati 2020?». Lo strano caso dello sport
«Papà, perché Europei e Olimpiadi sono datati 2020?». Lo strano caso dello sport
di Marco Mottolese
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Sabato 31 Luglio 2021, 11:33 - Ultimo aggiornamento: 23:25

“ Papà, ma perché gli Europei e le Olimpiadi sono datati 2020?. Era lo scorso anno vero?” Ascolto in un bar con televisione questa domanda di una bambina al padre, e mi fa riflettere. Perché, anch’io mi domando, si è deciso di mantenere nelle comunicazioni ufficiali, nei loghi delle grandi manifestazioni sportive oggi ripartite, quel 2020 in cui si sarebbero dovute tenere anche se la lancetta nel frattempo si è spostata in avanti di un anno? Il 2020 rimane un anno purtroppo indimenticabile ma sarà difficile, in futuro, regolare il quadrante considerando gli eventi passati in differita. Non è cosa da poco conto questa, se ci si pensa bene. Ma soprattutto ci dice molto sulla abitudinarietà dell’uomo il quale, una volta stabilite le cadenze delle cose, fa fatica a mutarle, anche davanti a sfaceli quale quello che stiamo affrontando da quasi sette stagioni.

Dov’era il male nel mettere in chiaro che siamo nel 2021 anche per lo sport? Lo avremmo dovuto fare soprattutto per i più piccoli, per i quali gli anni hanno un valore diverso. Scolastico. E non è certamente un problema tecnico; cambiare data sui materiali è la cosa più semplice del mondo, anche se posso intuire i risvolti economici, già di per loro drammatici per il paese ospitante.

La verità è che, lasciando 2020 come epigrafe, sotto sotto si cerca di farsi beffa di un anno che è stato più forte di noi, un anno che ci ha fatto fare quello che voleva lui e non quello che avremmo voluto noi e allora, quasi fosse un tranello a posteriori teso dagli umani al virus, si decide di fingere di essere ancora lì, in quel 2020 che alcuni non vorrebbero neanche nominare ma che, nell’anno successivo, facciamo ancora palpitare come a dire “ ecco, non sei riuscito a farci perdere un anno, ti mettiamo in scena come replica proprio per dirti: ora sei finito, lo decidiamo noi” .

E quali sono le implicazioni? Qui è difficile tirare conclusioni. Tralasciamo gli europei di calcio; i calciatori hanno avuto la fortuna di non smettere mai di giocare nel 2020, troppo rilevante il business e la posta in palio intorno al football per interromperlo; lo stadio è diventato virtuale infilandosi nel televisore come un Aladino al contrario e, in questa maniera, i calciatori hanno potuto continuare a giocare a porte chiuse, in un clima sempre più irreale dove il silenzio degli spalti ha scoperto gli altarini delle panchine; per non disperdere le loro forze di calciatori al culmine della forza giovanile, seduti sulla montagna di denari che ricopre il mondo del calcio, tutto è andato avanti “come se”.

Invece, osservando i giochi olimpici in tv, con distanza raddoppiata - dalla distanza fisica e dall’assenza di pubblico - ( ché vedere il pubblico, anche dallo schermo, serve a creare osmosi tra tifosi in poltrona ), si capisce benissimo che questi atleti olimpici, quelli che un tempo si chiamavano “amateurs” , insomma i dilettanti di una volta (anche se oggi lo sport paga comunque) hanno subìto enormi problemi nel rimettersi in moto per partecipare alla gara della vita e questo perché, saltare le tappe intermedie, determinanti nell’anno che precede le olimpiadi, è come andare a sposarsi senza conoscere la sposa.

Il Covid, per molti dei partecipanti ai giochi, continua a dettare legge. Tokyo, in tv, appare spettrale; avveniristici stadi e luoghi di gara, pensati faraonicamente nei lunghi anni di attesa per l’evento clou, sono praticamente intonsi e, all’interno di questi catini vuoti, gareggiano atleti attoniti che sembrano dire: “siamo qui, siamo vivi, gareggiamo, ma per chi?”.

L’assenza di pubblico sterilizza l’olimpiade; forse fu meglio, nel ’40 e ’44, causa guerra, lo stop, perché è impensabile, in determinati momenti in cui l’umanità tutta è distratta da fatti enormi, svolgere le olimpiadi che sono mutazione virtuosa dell’ancestrale antinomia tra popoli; infondo i giochi mimano la millenaria lotta tra territori e razze come sfogo salvifico e propedeutico per tentare di aggirare l’antico gioco mortale, la guerra. E allora mi appaiono affaticati dalla guerra al Covid, gli atleti; a volte stralunati, abbassano le performances perché colti da un inconsueto “jet leg” che li affligge moralmente e li limita. Il bioritmo di una olimpiade è costante a quattro anni e il romperlo evidentemente produce bizzarrie, come se la domanda della bimba al papà “ma in che anno siamo?” rendesse strabici anche gli atleti. Non c’è olimpiade in cui non succedono fatti strani nel villaggio.

Oggi il fatto “strano” si chiama contagio, ed entrare in quello spazio che un tempo rappresentava la vera ragione di un’olimpiade (vedi immagini Roma 1960) oggi è come varcare le soglie di Alcatraz. Chissà che ricordi lascerà agli atleti questa kermesse sigillata con una data sbagliata. Il medagliere dei giochi olimpici è lo specchio del mondo che cambia. Sembrerebbe, da un primo scorcio a queste olimpiadi “remainders” - che piazzano l’invenduto dell’anno precedente - che per essere al vertice forse bisogna aver sofferto di più, aver convissuto già in passato con spettri di massa che oggi permettono, a quelle nazioni che spuntano sorprendentemente sulla cima dell’iceberg delle performances sportive, di vivere comunque i giochi come una liberazione. Le olimpiadi, una volta di più, esprimono il pensiero di un popolo, non solo la sua forza fisica.

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