Coronavirus, terapie intensive ridotte: così il Nord resta a rischio

Terapie intensive ridotte: così il Nord resta a rischio
Terapie intensive ridotte: così il Nord resta a rischio
di Mauro Evangelisti e Alberto Gentili
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Mercoledì 29 Aprile 2020, 00:18 - Ultimo aggiornamento: 16:01

Ridurre i posti di terapia intensiva solo perché il numero di pazienti Covid che ne hanno necessità è sceso sotto quota 2.000 è molto pericoloso. La Lombardia, ad esempio, notano nel governo, rispetto all’incremento massimo di letti a disposizione quando l’epidemia aveva raggiungo il picco, ha rinunciato a un totale di 436 unità, la provincia autonoma di Bolzano 101, il Piemonte 65. Si tratta però di una scelta strategica poco lungimirante, visto che tra i criteri di cui si terrà conto per riattivare il lockdown, Regione per Regione, c’è proprio una insufficiente disponibilità di posti di terapia intensiva.

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Quando scatterà l’allarme, perché in una Regione si accenderà la spia rossa della riserva, si dovrà chiudere. Oggi o domani il ministro della Salute, Roberto Speranza, fisserà più nel dettaglio tutti gli indicatori che fanno tornare una Regione in lockdown. Si parte dal comma 11 dell’articolo 2 del nuovo Dpcm che recita: «Le Regioni monitorano con cadenza giornaliera l’andamento della situazione epidemiologica del proprio territorio, e in relazione a tale andamento, le condizioni di adeguatezza del servizio sanitario regionale».

I dati vanno comunicati a ministero della Salute, Istituto superiore di Sanità e Comitato tecnico scientifico e se vengono superati alcuni limiti il presidente della Regione deve provvedere alla chiusura. Quali sono questi criteri? Sarà scritto nel decreto di Speranza, ma già all’allegato 10 del Dpcm si capisce a cosa si faccia riferimento: non c’è solo il tema dell’R0 (l’indice di diffusione del contagio) che non deve superare il valore di 1, ma anche una serie di indicatori di tenuta del sistema sanitario, dalla capacità della Regione di eseguire i tamponi e alla tracciabilità dei contatti dei positivi, ai posti letto a disposizione nelle terapie intensive. 

I CRITERI
Ecco perché, ridimensionare la risposta che era stata organizzata, con circa 9.500 posti letto in terapia intensiva in tutto il Paese rispetto alle 5.324 unità che c’erano prima dell’uragano Covid, è assai poco lungimirante. Ieri ad esempio ha segnalato il ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia: «Dopo il 18 maggio conteranno le differenze territoriali. Occupiamoci di tenere alto il numero delle terapie intensive, che Bolzano l’abbia rallentato non va bene. La Provincia autonoma quando è partita nella fase della pre-emergenza aveva 37 posti in terapia intensiva strutturali, poi è arrivata al picco con 187 il 13 aprile e abbiamo tirato un sospiro di sollievo, ma ora è scesa a 86. E non va bene, se dovesse risalire il picco». 

Il ragionamento speso per la Provincia autonoma di Bolzano, nel governo viene allargato anche ad altre Regioni. Il 25 aprile il Messaggero aveva raccontato come, ad esempio, la Lombardia rispetto al numero massimo di posti di terapie intensive allestite nel pieno dell’emergenza, già avesse fatto segnare una riduzione di 260 unità. Il dato era riferito al 23 aprile, ma cinque giorni dopo - il 27 - la situazione ha visto un ulteriore arretramento: secondo i dati a disposizione del governo, la riduzione ora è di 460 unità. In sintesi: oggi la Lombardia ha 1.384 posti, il 23 aprile ne aveva 1.540, il 13 1.800. Vero che sono diminuiti i pazienti Covid (oggi in Lombardia in terapia intensiva per questa patologia sono 655), ma questo non significa che non sia necessario mantenere un’elevata disponibilità, per essere pronti a resistere in caso di una seconda ondata. E questo prevede il Dpcm. Anche il Piemonte, che pure è la seconda Regione per numero di contagi, arretra: meno 65 posti di terapia intensiva, mentre Veneto ed Emilia-Romagna mantengono alta la guardia. Anche Campania e Lazio registrano delle riduzioni, ma il timore maggiore del governo è per il Nord-Ovest, visto che i nuovi contagi di Piemonte e Lombardia rappresentano ben oltre il 50 per cento del totale nazionale.

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