Coronavirus, l'infettivologo Bassetti: «Vorrei sapere se chi è morto in Italia era vaccinato per l'influenza»

Matteo Bassetti: «Alcuni muoiono col virus, ma non per il virus. I soggetti deboli si difendano dall’influenza»
Matteo Bassetti: «Alcuni muoiono col virus, ma non per il virus. I soggetti deboli si difendano dall’influenza»
di Graziella Melina
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Mercoledì 26 Febbraio 2020, 00:16 - Ultimo aggiornamento: 10:06

Il numero dei decessi per coronavirus in Italia, fino a ieri sette, spaventa, e non poco. Matteo Bassetti, direttore di Malattie infettive dell’Ospedale policlinico San Martino di Genova prova però a cambiare prospettiva: «Mi domando - dice - se queste persone fossero state colpite dall’influenza sarebbero morte ugualmente? Ogni anno muoiono per influenza fino a 8-10mila persone, eppure nessuno è andato a occuparsi di questi pazienti».

Il tasso di letalità da nuovo coronavirus però non è da sottovalutare.
«Noi siamo di fronte a nuovo virus che è mutato da un animale. Dobbiamo far sì che non diventi endemico in questo Paese, perché non siamo vaccinati e non abbiamo farmaci. I numeri da cui partire, però, ci dicono che l’80% delle persone che in Cina sono state contagiate hanno avuto un quadro clinico lieve, il 10-15% grave, e solo il 5% dei casi sono stati quelli critici, ricoverati in terapia intensiva. Sempre in Cina, poi, i casi più gravi sono tutti della provincia di Hubei, a Wuhan, dove il sistema è andato in tilt e la letalità è stata 4 volte più alta che nel resto della Cina, pari cioè a circa 2.3%. Fuori della Cina e nel resto del mondo, la letalità è intorno allo 0.4-0.8%». 

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In Italia le persone decedute avevano altre patologie pregresse. L’infezione è stata dunque fatale?
«Bisogna innanzitutto distinguere quando un’infezione è davvero una diretta causa della morte: se sono cioè una persona sana e mi viene la polmonite e a causa di quella polmonite muoio, quindi muoio per il virus; oppure se sono una persona gravemente malata, vado all’ospedale, e l’infezione mi ha portato ad aggravare le condizione di base, quindi muoio ma non per il virus, bensì con il virus. Oppure, ancora, vado in ospedale perché sono un oncologico terminale, ho grossi problemi, mi viene un arresto cardiaco e scoprono che avevo il coronavirus. In questi ultimi due casi, non si tratta dunque di morte legata all’infezione. Il virus è stato una concausa. Mi risulta, tra l’altro, che in un caso è stato fatto il tampone dopo che il paziente era morto. Come fai a sapere se è morto per il coronavirus?».
 



A Wuhan però è morto anche un giovane medico. E in Italia, un 38enne si trova in terapia intensiva.
«Se si guardano i numeri complessivi, viene fuori che gli operatori sanitari cinesi che sono stati contagiati mentre lavoravano sono oltre 1.200-1.300, 4 invece quelli morti. Dunque, l’incidenza di letalità tra gli operatori è dello 0,01%. Poi bisogna capire quali sono i pazienti che sono arrivati tardi alle cure. Per esempio, mi dicono che il giovane italiano ha temporeggiato un po’: è stato 4-5 giorni a dormirci sopra, è andato al Pronto soccorso e non ha voluto ricoverarsi. Poi c’è tornato e l’hanno dovuto quasi costringere. È chiaro che così ti assisto in maniera meno opportuna e meno adeguata e magari tardivamente».

Preoccupa però che i soggetti a rischio siano i più fragili.
«Sarei curioso di vedere se le stesse persone che sono morte erano vaccinate per l’influenza. Sarebbe una cosa molto importante da capire. Lo stesso Paese che oggi parla solo di coronavirus è lo stesso Paese dove tre mesi fa un italiano su cinque si vaccinava per l’influenza? È lo stesso Paese dove la gente dice che la vaccinazione non serve a niente? E che ha un movimento no vax che rappresenta il 5% per cento della popolazione?». 

Ritiene comunque che le misure prese finora in Italia siano adeguate a contenere l’epidemia?
«Io sono un medico, certe scelte non spettano a me. Mi pare, però, che alcune misure forse potevano essere prese in maniera diversa: aver bloccato i voli, ma non aver controllato gli accessi, non aver messo le persone in quarantena, mi pare sia il vero problema. Anziché metterci d’accordo con tutti gli altri governi europei, abbiamo ritenuto di andare a misurare la temperatura negli aeroporti. Ci sono lavori scientifici che dicono che, se lo vuoi fare, la temperatura devi misurarla semmai nell’aeroporto di partenza, non in quello di arrivo. Era già dimostrato, dunque, che si trattava di una misura più di facciata che di realtà».
 

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