Doppio cognome ai figli, se la Corte Costituzionale interpreta il Paese meglio dei politici

Doppio cognome ai figli, se la Corte Costituzionale interpreta il Paese meglio dei politici
di Andrea Catizone
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Giovedì 28 Aprile 2022, 08:11 - Ultimo aggiornamento: 13 Giugno, 13:08

La Corte Costituzionale guidata magistralmente dal Presidente Giuliano Amato ha considerato incostituzionale l’art. 262 del codice civile del 1942 che automaticamente attribuisce ai figli il cognome paterno per violazione degli articoli 2, 3 e 117 comma 1, della Costituzione in quanto norma “discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio”.

L’argomento definitivo della Corte Costituzionale si snoda su un duplice ordine di ragionamento che investe sia il principio di uguaglianza della donna e dell’uomo rispetto alla prole e dentro le formazioni sociali, sancito dall’art. 2 e dall’art. 3 e meno incisivamente dall’art. 29 riferito alla famiglia, e l’interesse del figlio figlia, come portatore di una composita identità che deriva non solo dal padre, ma anche dalla madre. Vi era già stato un pronunciamento della Corte di Strasburgo che nel 2014 condannava il nostro Paese invitandolo ad “adottare riforme legislative di altra natura” che non siano manifesta violazione degli articoli 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti umani. Una decisione che sopperisce all’inerzia del Parlamento nel quale da legislature giacciono  proposte di modifica di questa norma, ma che finalmente trova la sua effettività nell’attuale pronuncia della Consulta in continuità, mi si permetta, alla visione femminista del suo Presidente il Prof. Giuliano Amato già evidente nel memorabile discorso di nomina, ma che ha pervaso tutta la sua vita accademica e istituzionale.

Una sentenza che piccona  gli ultimi residui di un impianto codicistico, il nostro, incentrato sulla netta superiorità dell’uomo dentro la famiglia e nella società. Il cognome, infatti, non è solo e mai un fatto privato, ma costruisce l’identità di ciascuno di noi proprio nello spazio pubblico e in relazione con gli altri, nonché con i membri della propria famiglia.

Non riconoscerlo significa negarne l'esistenza e la donna è stata espulsa ingiustamente da questo momento di solenne riconoscimento.  Il punto centrale della sentenza risiede proprio nell’abolizione di un automatismo che stabiliva inequivocabilmente l’inaccettabile gerarchia tra uomo e donna. E la stessa Corte a ravvisare, nel corso degli anni in quella norma “il retaggio di una concezione patriarcale della famiglia e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con il valore costituzionale dell’uguaglianza uomo donna” senza che tuttavia, ahinoi ciò diventi lo stimolo per il potere legislativo di intervenire sulla materia. 

Questa volta, tuttavia a differenza del passato la Consulta si assume direttamente il compito di dichiarare incostituzionale la norma senza che sia necessario altro, e  meno male che lo fa data l’inerzia del Parlamento. Alla luce di questa sentenza l’Italia è un Paese in cui il principio di uguaglianza formale e sostanziale acquisisce maggiore effettività e si pone in linea con quanto accade negli altri Paesi europei. Di questo non si può che essere orgogliosi e grati ad un organo di giuriste e giuristi che apparentemente si colloca lontano dalla nostra quotidianità, ma che nel corso degli anni ha dimostrato di saper interpretare ciò che accade nel Paese e nella società molto più attentamente e più a fondo di quanto non riesca a fare la compagine politica e partitica concentrata più nell’autoconservazione che nell’alto compito di innestare il processo trasformativo della società alla quale sono e sarebbero chiamati. 

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