Coronavirus a Roma, il calvario di una famiglia: sintomi Covid ma tamponi dopo 37 giorni

Roma, il calvario di una famiglia: sintomi Covid ma tamponi dopo 37 giorni
Roma, il calvario di una famiglia: sintomi Covid ma tamponi dopo 37 giorni
di Mauro Evangelisti
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Venerdì 8 Maggio 2020, 16:24 - Ultimo aggiornamento: 9 Maggio, 12:10

Quando si parla di tamponi e risposte del sistema sanitario emergono sempre molte storie di lunghe attese e incertezza. Questa è la disavventura di una famiglia del Tiburtino, a Roma, padre, madre e due figli. Hanno avuto contatto con due persone positive (amici anziani purtroppo morti per Covid); padre e figlio sono stati contagiati, ma sono stati sottoposti ai tamponi, in due fasi, solo dopo 18 e 37 giorni. 

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Rivediamo cosa è successo. Il 13 marzo, tre di loro entrano in contatto diretto con due persone infettate. Informano il 1500, poi il medico di famiglia, ma al contrario di quanto ci può aspettare non vengono eseguiti i tamponi, ma viene solo detto loro di isolarsi. Neppure una settimana dopo, quando uno dei figli, un ragazzo di 22 anni, ha la febbre e dolori articolari, tipici sintomi di Covid, scattano le verifiche. Spiega la madre Anna Proietti: «Chiamiamo il medico di famiglia, che ci rimanda alla Asl Roma 2. La Asl, per contattare la quale ci sono volute ore, decide che è asintomatico. Noi, tuttavia, con la nostra competenza di neofiti virologi, procediamo con l’isolamento». Dopo tre giorni la febbre diventa alta, nuova chiamata al medico di famiglia («ancora poco addentrato nell’argomento»).

Cosa succede? «Ci rivolgiamo di nuovo alla Asl, la quale non ci ha più contattato dall’inizio della quarantena: sono passati 12 giorni. Questa volta, sembra farsi carico della situazione (la febbre ha superato i 38° e si applica il protocollo) e ci richiama anche il giorno seguente per conoscere il bollettino medico: niente febbre. Ciononostante, come da protocollo appunto, decide di programmare per il ragazzo il tampone per l’indomani. Ma passano altri quattro giorni; arriva il tampone, finalmente, il diciottesimo giorno dal giorno del contatto con il virus». Si dirà, a questo punto, logica vuole che si faccia il tampone a tutta la famiglia. No. Trascorrono i giorni, la famiglia resta sempre in isolamento (ma solo grazie al suo senso di responsabilità), nessuno verifica se anche gli altri sono positivi. Si fa viva un’altra operatrice della Asl che, a 37 giorni dal contagio, osserva che forse è il caso di sottoporre al tampone anche gli altri membri della famiglia. Racconta la signora Anna: «Così richiamiamo ancora la nostra referente Asl, alla quale comunichiamo la grande idea della sua collega; lei, messa alle strette, decide: “Tamponi per tutti dopodomani!”. E invece no: tamponi per tutti sì, ma passano ancora altri due giorni. Andiamo in batteria, con il sistema del drive-in: un attimo e i tre tamponi sono fatti. Risultato: io e mia figlia negative; mio marito positivo. E allora, noi da oramai esperti virologi, capiamo che quella lieve febbre, quella tosse e i forti dolori articolari erano proprio i sintomi del contagio. Forse chi aveva la competenza giusta avrebbe dovuto interpretare quei sintomi come indicatori chiari, segnali importanti per programmare il tampone a un’intera famiglia venuta a contatto con due anziani, amici di una vita, entrambi deceduti per Covid 19».

Altra riflessione: «Sicuramente l’aver attribuito la giusta rilevanza ai sintomi manifestati da mio marito, comunicati subito alla Asl, non avrebbe messo a rischio la salute degli altri membri della famiglia e solo il nostro rigore, chiudendoci in casa nonostante il primo avallo della Asl ci avesse abilitato ad uscire, ha evitato di contagiare altre persone».

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