di Mario Ajello
4 Minuti di Lettura
Lunedì 23 Marzo 2020, 00:27
Lo Stato «è forza», ha spiegato Niccolò Machiavelli. E in una situazione eccezionale, deve esserlo eccezionalmente ancora di più. Qui la politica non c'entra. Quel che preme sottolineare è che il metodo Conte - di cui si è avuta una rappresentazione l'altra notte - sembra contenere delle debolezze non giustificate dalla virulenza del contagio in corso. 
Di sicuro, come da queste colonne fin dall'inizio dell'emergenza andiamo sostenendo (anche in controtendenza con certo mainstream e fino a rivolgere una lettera pubblica al capo del governo) la stretta della chiusura totale è l'unica arma contro il morbo. E il fatto che il governo sia arrivato ad impugnarla davvero è un segno che in parte conforta. Ma al tempo stesso preoccupa il ritardo con cui le vere misure anti-contagio sono state assunte, la maniera diluita con cui si è arrivati ad adottarle, il non considerare quanto la tecnica del gradualismo rischiasse - e così è stato - di risultare evanescente di fronte alla geometrica potenza del virus. 

Il metodo Conte insomma sembra stridere con l'azione risoluta, tempestiva e definitiva. E ciò sta alimentando ansia e incertezza nei cittadini chiamati a seguire le necessarie regole restrittive. 

Uno Stato che è «forza», democraticamente intesa, è quello che si concepisce come fonte primaria di legittimità a decidere. E a esercitare la propria auctoritas a cominciare dai fondamentali: e quello della difesa della salute pubblica lo è nella maniera più assoluta. Non c'è libertà senza liberazione dal male fisico. Non può funzionare una nazione, e neppure una civiltà, se il suo corpo - non solo in senso metaforico - non è perfettamente sano. Lo avevano capito gli illuministi quando parlavano di «pubblica felicità», e non si vede perché bisogna regredire da certi traguardi ormai acquisiti. Preoccupa perciò la tendenza per cui l'autorità centrale si sta accodando, in modalità followership e non leadership, alle sollecitazioni di poteri particolaristici, che si muovo spesso in ritardo anch'essi e in modo scomposto e caotico: parliamo dei governatori regionali. Specie quelli, si veda la Lombardia, che hanno sbagliato strategia anti-virus. Gli effetti dell'iniziale melina lumbard sono confermati dall'aumento esponenziale dell'epidemia in quei territori (anche se ieri sera qualche barlume di speranza è arrivato). Lo Stato avrebbe dovuto precedere le Regioni e non accodarsi a un andazzo nel quale i poteri locali, proprio con l'alibi del governo nazionale irresoluto nel dare una indicazione univoca, si sono mossi in ordine sparso. Lo Stato è lo Stato e il metodo Conte non può derogare da questo principio. Il pericolo è appunto dar fiato a quelle pulsioni ataviche che oggi si chiamano autonomia differenziata ma che da sempre rappresentano il bacillo dell'anti-unità d'Italia e già troppi danni nel corso della storia, prima e dopo il 1870, hanno arrecato alle sorti di questo Paese. 

La rincorsa nei riguardi delle Regioni rischia di degradare, agli occhi dei cittadini, lo Stato a organo sussidiario, quando dovrebbe essere l'opposto. Agli errori di principio, che si riflettono nella realtà materiale della vita e della morte delle persone, si aggiungono gli errori di comunicazione che sono a loro volta vera sostanza. Rivolgere un annuncio, poi rivelatosi vago e incompleto, e farlo nel cuore della notte - e la notte come si sa amplifica nella gente le paure - non risulta un esercizio di responsabilità quanto di emotività e di avventatezza. S'è tenuto il Paese con il fiato sospeso, proprio nel momento in cui va informato e rassicurato, dando la stura a fantasmi in una fase in cui ce ne sono già troppi. 

Il tono giustificatorio - ma giustificarsi di che cosa? Di esercitare una stretta severa che doveva scattare prima ? - non aiuta l'idea di Stato che va rafforzata in contingenze come queste. Ed è quella che faceva dire nell'Ottocento al premier britannico Benjamin Disraeli, rivolto ai suoi colleghi: «Fornite solo risultati». Ricordando loro l'essenza dell'attività di governo, su cui i cittadini in sede elettorale avrebbero poi giudicato. Non c'è solo questo.
Anche nel metodo Conte, il medium è il messaggio. E scegliere Facebook invece che una conferenza stampa, sia pure senza giornalisti presenti se non da remoto, per tutelarne la salute, ha l'aria di apparire un'operazione di marketing politico. Buona più che altro a consolidare qualche like o follower in più. Scopo per alto non raggiunto, e fioccano le critiche sui social. Insomma, l'ultimo timore di cui preoccuparsi per chi esercita l'autorità è temere l'impopolarità. Ma il timore di fare del premier una figura impopolare è quello che spiega le titubanze e le strategie del metodo Conte. L'unica preoccupazione invece dev'essere quella di garantire la riuscita delle misure, se possibile tempestive, adatte a garantire il risultato. Anche a costo dell'impopolarità nell'immediato. Se lo Stato continua ad abbassare la sua potestà, il futuro resta incerto. Se al contrario lo Stato c'è, ma deve essercene di più, arriveremo alla fine del tunnel. Da grande Paese quale siamo.
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA