di Mario Ajello
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Mercoledì 18 Marzo 2020, 00:09 - Ultimo aggiornamento: 08:56
In uno dei suoi libri migliori, Leo Longanesi si chiedeva: «Sapranno le vecchie zie salvarci dall’invasione cosacca?». Ora c’è da domandarsi, invece, se i giovani salveranno l’Italia dal virus, dandole la forza per ricominciare. I diecimila medici neolaureati che arrivano in prima linea sul fronte della guerra al contagio possono somigliare, sia pure in camice bianco e non in camicia rossa da garibaldini, a quei Mille per lo più ragazzi di 159 anni fa.

Ragazzi dell’Ottocento che in una fase cruciale della storia diedero il meglio di sé. E incarnano una speranza italiana, in un momento difficile, questi giovani nati nel 1993, nel ‘94, nel ‘95, mandati sul fronte. Che non sarà, per fortuna, quello dei cruenti combattimenti del Risorgimento o quello della prima guerra mondiale e neppure quello della seconda, ma la prova a cui sono chiamati - altro che bamboccioni, altro che sdraiati per usare l’aggettivo salottiero che la retorica sinistrese affibbia ai ragazzi d’oggi solo perché non sono pseudorivoluzionari come molti di quelli di ieri - rappresenta un brusco impatto con la realtà che nessuno di loro e di noi avrebbe mai immaginato.


Del resto però, da quando è cominciata l’emergenza Coronavirus, e soprattutto mentre è andata crescendo, la consapevolezza della grande sfida a cui è stata chiamata l’Italia si è diffusa in maniera impressionante e sorprendente nelle nuove generazioni o almeno nella parte più avvertita di esse. 
E se un tempo la cosiddetta meglio gioventù, quella che nell’alluvione di Firenze del ‘66 preparò il ‘68, aveva una cultura di rottura che sarebbe naufragata nell’ideologia, i nuovi mille che sono diecimila e dietro di loro e come loro ce ne sono tantissimi altri pur senza fresca laurea in medicina incarnano invece un grosso frammento d’Italia cresciuto nella cultura del pragmatismo, del merito e dell’impegno individuale che chiamato dalle urgenze della storia sta diventando impegno collettivo. 

L’ELOGIO
Verrebbe da fare l’elogio dei giovani in questa emergenza. Non si stanno per lo più comportando da irresponsabili, anzi sembrano sentire il peso del momento. Lottano per i nonni, rispettando le regole che l’Italia si e imposta. Sono stati costretti a tornare dai loro Erasmus o dalle loro facoltà universitarie, per rinchiudersi in casa con i genitori e sono diventati l’esempio che in fondo la famiglia italiana - altro che familismo amorale! - sembra funzionare perché la catena nonni-padri-madri-figli sta garantendo quell’Italia in quarantena fiduciosa che poi Andrà tutto bene. Uno slogan, questo, che proprio alla fantasia dei ragazzi si deve. Ed è diventato - da quanto i giovani non imponevano le loro parole nel Paese abituato a negargli voce e futuro? - virale contro il virus. Se i diecimila andranno nelle corsie, molti altri stanno combattendo l’epidemia con le armi della mobilitazione civile - le iniziative social per tenere su il morale a loro si devono - e spesso diventano educatori dei loro genitori: «No, papà, non si può uscire per una passeggiata e l’aperitivo con gli amici te l’organizzo io su HouseParty». Più che sentirsi in pericolo direttamente, lottano per la tutela della salute dei nonni e delle vecchie zie. E questo è un modo non retorico (difficilmente si commuovono per la mobilitazione tricolore della politica in queste ore) di comportarsi da patrioti. Per libera scelta e per un moto dell’anima. Oltretutto, la crisi anche economica connessa all’emergenza sanitaria non potrà che colpire anzitutto i soggetti più deboli e tra i più deboli nella nostra società ci sono i giovani. Magari proprio questa consapevolezza li spinge a dare il massimo per battere il morbo il più presto possibile, e poi sperare in un futuro meno nemico. 

Si e sempre detto che le guerre forgiano le generazioni, e piace appunto pensare che anche questa volta, pur trattandosi di un’epidemia ma che è sempre un’inutile strage, sia così. Nella Grande Guerra l’immissione nel sistema di giovani medici appena laureati rappresentò una mossa importante, fu un segnale di sforzo unitario a confronto di un mondo accademico arroccato su posizioni di conservatorismo baronale. Così, con le ovvie e dovute differenze, può essere anche oggi. E siccome Totò, che aveva sempre ragione, diceva che «morto un microbo se ne fa un altro», i nuovi Mille cioè 10mila in camice bianco saranno utili anche in futuro. Nella speranza che il peggio non si ripeta più. 
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