di Cesare Mirabelli
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Mercoledì 23 Ottobre 2019, 00:11
Risulta priva di consistenza l’affermazione che Roma sia stata assoggettata ad una associazione criminale di tipo mafioso, infiltrata nella pubblica amministrazione per acquisire la gestione o il controllo di concessioni e appalti di servizi, traendone con intimidazione o omertà ingiusti profitti. 

La sentenza che la Corte di cassazione ha pronunciato ieri, nel processo noto come “mafia Capitale”, esclude che ai fatti contestati agli imputati possa trovare applicazione l’articolo 416 bis, introdotto nel codice penale per combattere la criminalità mafiosa. Questo non esclude che abbia operato una associazione a delinquere, reato per il quale i promotori possono essere puniti con la reclusione fino a sette anni.

Né riduce la gravità degli altri reati che sono stati commessi ed accertati. Viene tuttavia meno la connotazione mafiosa che aveva portato anche ad ipotizzare lo scioglimento degli organi elettivi e il commissariamento del Comune. La diffusione di una immagine di Roma mafiosa, ampliata e diffusa con rilievo internazionale, ha certamente comportato non poco danno per la città. Sapere che quella immagine non corrisponde alla realtà, rassicura per un verso, per altro non deve indurre a un minore impegno nel contrastare la criminalità. 

Il “mondo di mezzo”, che si colloca tra malaffare, amministrazione e politica, va combattuto e condannato con decisione. Ogni fenomeno di corruzione, in contesti limacciosi ed ambigui, nei quali sguazzano faccendieri di vario tipo, va perseguito ricorrendo agli strumenti adeguati, che esistono e sono efficaci. Non è necessario alzare il tiro configurando ipotesi delittuose di maggiore gravità, se sono destinate a svanire o essere ridimensionate nel corso del giudizio. 

Anzi, se l’alzare il tiro consente, con la giustificazione del carattere mafioso dei reati, l’uso di strumenti di indagine più invasivi, di intercettazioni estese nei destinatari e ampiamente diffuse, di maggiori possibilità di restrizione della libertà personale prima del giudizio, è necessario che l’accusa per la quale si procede sia sorretta da robusti elementi. 

Le incertezze nella qualificazione dei fatti in questo caso sono rese evidenti dalle diverse conclusioni alle quali si è pervenuti nei diversi gradi di giudizio. Il Tribunale di Roma ha escluso che vi fossero le caratteristiche di una associazione di tipo mafioso; la Corte d’appello ha ribaltato questa decisione; la Corte di cassazione è tornata sulle posizioni del Tribunale. Che vi siano state valutazioni diverse suscita un’altra riflessione.
Rende evidente che mantenere il giudizio di appello, che consente di riesaminare il fatto e le prove, e il giudizio di cassazione, incentrato sulla interpretazione della legge e sulla corretta motivazione delle sentenze, offre una maggiore garanzia, per l’imputato e per chi lo accusa, che il processo giunga all’accertamento della verità, per quanto ciò sia possibile.
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