di Paolo Balduzzi
5 Minuti di Lettura
Mercoledì 29 Maggio 2019, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 00:06
Passate le elezioni europee, alcuni tra i pericoli maggiori paventati alla vigilia, almeno per il nostro Paese, si stanno materializzando. L’Italia sembra rappresentare un’eccezione sotto diversi punti di vista: è uno dei pochi Paesi in cui l’affluenza è calata rispetto al passato (anche se resta superiore alla media) e in cui le forze sovraniste riescono ad affermarsi in maniera preponderante. 

Inoltre, è uno dei pochi Paesi che difficilmente troverà interlocutori e alleati tra gli altri Stati dell’Unione, seppur per motivi diversi. Non tra gli europeisti, ovviamente, ma nemmeno tra i sovranisti, forse ancora più rigidi per quanto riguarda il rispetto della disciplina di bilancio e comunque contrari a finanziare il debito pubblico altrui (per non parlare della ripartizione dei migranti). Sarà cruciale capire quali cariche otterrà il nostro Paese all’interno delle istituzioni europee e con che tipo di atteggiamento si presenterà di fronte alla nuova Commissione. E, in fin dei conti, anche di fronte a quella uscente, chiamata a decidere se aprire una procedura di infrazione o meno contro il nostro Paese.

Le prime dichiarazioni di Matteo Salvini sulla rinegoziazione degli obiettivi di deficit, sulla realizzazione della flat tax e sulla rinuncia all’aumento dell’Iva non lasciano presagire una trattativa semplice. Ma uno scontro. Anche - e soprattutto - sul fronte di eventuali nuovi aumenti dello spread. Sgombriamo il campo da un possibile equivoco: qui non si tratta di mettere in discussione il chiaro mandato ottenuto dalla Lega a queste elezioni, un mandato forte di oltre sei milioni di voti in più rispetto alle politiche del 2018. 

M c’è un ostacolo: anche se è evidente il cambio dei rapporti di forza elettorali all’interno della maggioranza di governo, la distribuzione del potere all’interno del parlamento nazionale resta immutata. Secondariamente, la Lega deve riconoscere che al suo interno vive una fortissima contraddizione, che potrebbe risultarle letale. Il partito viene votato in tutto il Paese, con punte al Nord di oltre il 40 per cento; ma è il più votato anche al Centro (33 per cento) e pure al Sud supera il 20 per cento quasi ovunque.

Se al Sud la Lega viene però percepita come partito nazionale e assistenziale, al Nord essa continua a essere vista come partito territoriale e orientato a difendere gli interessi delle regioni più ricche e degli imprenditori medio-piccoli. Come pensa Salvini di mantenere insieme queste due anime? La risposta è nelle sue parole, vale a dire: come si è sempre fatto nella prima Repubblica. In altri termini ragionando e spendendo come se non esistessero i vincoli di bilancio, come se non avessimo dei parametri da rispettare, come se non ci fossero dei mercati che di fronte alla prospettiva di una crisi di finanza pubblica chiederanno rendimenti sui titoli di debito sempre più elevati. 

È un mondo che non esiste più e che ha creato dei danni di cui ancora paghiamo le conseguenze (il debito pubblico, appunto). Se solo sei mesi fa abbiamo rischiato una crisi diplomatica, nonché una procedura di infrazione europea, per realizzare “Quota 100” (una minaccia ai conti pubblici) e Reddito di cittadinanza, come può essere la prospettiva più rosea rinunciando all’aumento dell’Iva (25 miliardi)? O introducendo una flat tax i cui contorni sono ancora incerti ma i cui effetti redistributivi e finanziari (una perdita di gettito di decine di miliardi) sono invece piuttosto certi?

I vincitori festeggiano, questo è ovvio e anche giusto. Ma non si può ignorare il contesto e il momento storico in cui ci troviamo. Siamo ancora sotto osservazione, dai mercati e alle istituzioni europee; nei prossimi giorni la Commissione ci invierà una lettera di richiesta chiarimenti rispetto alle misure che intraprenderemo per ridurre il debito nei prossimi anni. Da settimane, tuttavia, il leader della Lega non fa che parlare di quanto sia necessario non osservare i vincoli sul deficit e di proposte di spesa che di sicuro aumenteranno ulteriormente il debito pubblico. 

Il ministro Tria e gli altri membri più tecnici del Governo stanno lavorando per far quadrare i conti ma, quando delle coperture vengono trovate, si tratta di misure decisamente insufficienti: il “tesoretto” non speso dal reddito di cittadinanza, un miliardo aggiuntivo recuperato dalla lotta all’evasione, tecnicismi sul calcolo della crescita economica per ottenere qualche arrotondamento favorevole. 

Non è questo ciò di cui ha bisogno il Paese. O perlomeno, non solo di questo. Perché invece non provare a pensare come utilizzare la forza che, in particolare la Lega, ma anche lo stesso al governo, saldamente oltre il 50% nei consensi, ancora ha per realizzare quelle riforme magari meno popolari ma più incisive per garantire la crescita? La crescita economica sarebbe un toccasana anche per i conti pubblici: da un lato, maggiore attività economica significa minori spese assistenziali; dall’altro, redditi più elevati significano aumento del gettito fiscale senza necessità di ritoccare le aliquote. 

Una situazione, nel medio lungo periodo, di vittoria per tutti. Un obiettivo talmente strategico che se il governo presentasse una manovra correttiva - o una legge di bilancio - in deficit anche oltre il 3% ma orientata alla crescita, saremmo pronti a sostenere e sicuri che difficilmente troverà opposizioni, anche in Europa. Cosa porta invece una strategia come quella delineata dalle dichiarazioni del leader leghista? La risposta l’abbiamo già: lo spread è tornato a salire, già dal giorno dopo le elezioni. E continua a farlo. 

Con esso, a breve, anche la spesa per interessi: soldi sottratti tanto alle spese correnti quanto alle spese per investimenti, una manovra correttiva implicita, pagata dai cittadini e conseguenza esclusiva di certi annunci. Il punto di non ritorno, per il nostro bilancio e per il nostro paese, è segnato a quota 400. Siamo ancora lontani: ma quando un treno comincia a correre, fermarlo può diventare impossibile.
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA