Vincenzo Mancini: «Montavo gli sci in un retrobottega, così ho iniziato a costruire l'impero Cisalfa»

Vincenzo Mancini (Foto di Ermando di Quinzio)
Vincenzo Mancini (Foto di Ermando di Quinzio)
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Lunedì 8 Aprile 2019, 10:03 - Ultimo aggiornamento: 11:30

Nel luglio del 2002 Vincenzo Mancini raccontò al cronista Luca Lippera del Messaggero come aveva costruito dal nulla la catena dei negozi Cisalfa. Riproponiamo quell'intervista, con le foto di Ermando Di Quinzio, dopo la prematura morte dell'imprenditore.


(Dal Messaggero del 28 luglio 2002)

Il Signor Cisalfa ha quarantott'anni, due figli, due cani, una casa a Tivoli davanti alle cascate («Una delle più belle d'Italia», sorride), una cassa da Paperone bella e antica accanto alla scrivania e nessuna intenzione di fare il modesto. Ha pure centoquindici negozi in tutta Italia, 1.481 dipendenti, 335 milioni di euro di fatturato nel 2001 (650 miliardi di lire), l'obbiettivo d'arrivare in due anni a mille e pensare dice che «tutto cominciò montando sci in un retrobottega e coi tascapane militari...». I tascapane? «Sì, le sacche verdi di moda negli Anni Settanta, prima delle ”Tolfa”. Ma non lo scriva... Le compravo a via Sannio, dieci alla volta, mille lire l'una. Le rivendevo a Tivoli a duemilacinquecento. Avevo diciott'anni».


Capito? È così che si fa.

Vincenzo Mancini, i capelli brizzolati, moglie di Frascati, passione per la barca, è, col fratello Maurizio, il protagonista di una delle ascese più vertiginose nella storia della giungla commerciale romana. Era niente. Alla fine dell'anno, «al massimo nel 2003», sbarcherà, con la sua catena d'articoli sportivi, a piazza Affari: la Borsa. Potrà guardare fuori dalle finestre del suo ufficio, largo Brindisi 3, San Giovanni, sopra al negozio pilastro della società, e dire: «Ce l'ho fatta ancora».




Un po' presuntuoso, per caso?

«Per carità. Già i colleghi mi ritengono antipatico. Non mi faccia uscire, da questa intervista, ancora più antipatico. Diceva un mio amico: sono poco se mi considero, tanto se mi confronto. Ecco: di me, ho questa opinione».
 

 



Mica uno scherzo...

«Parlano i fatti. Nel commercio romano spiccano i nomi, grandissimi, di tante famiglie della comunità ebraica. Poi, c'è Mancini».

Mancini l'americano?

«Per niente. Sono italiano nel profondo. Noi ci muoviamo da soli, con l'inventiva. Loro, gli americani, sempre in gruppo. Da soli valgono poco».

E invece lei, secondo le curve del fatturato, è peggio del Nasdaq negli anni ruggenti: 83 miliardi nel '94, 650 nel 2001. 

«Obbiettivo a due anni mille miliardi di lire. Se preferisce, cinquecento milioni di euro».

Partendo dai tascapane...

«Ma no, cominciamo dall'inizio. Per puro caso, sono nato alla Maddalena, perché mia madre è sarda e laggiù abbiamo ancora una casa. Vivevamo a Tivoli. Papà era direttore in una fabbrica di mattonelle. Ho studiato da perito elettrotecnico: 36 su 60. Al commissario d'esame giurai: non farò mai il perito: nove in italiano, tre in meccanica. Poi successe....».

Cosa?

«La fabbrica di mio padre chiuse, lui perse il lavoro. Così - ma questo non lo scriva - prendemmo una pizzeria a taglio a Tivoli: ci lavorava tutta la famiglia. Era il 1971. Per arrotondare, aiutavo un amico che aveva un negozio di articoli sportivi a Tivoli. Ero il commesso. Montavo attacchi per gli sci: 250 lire al paio».

E mentre montava, che aveva per la testa?

«Comprare quel negozio».

Con 250 lire ogni sci?

«Facevo altre cose. Scendevo in motorino a via Sannio. Erano gli anni dell'Eskimo, c'erano i tascapane...».

Pochino per sfondare, no?

«Beh, cominciai con i vestiti usati. Ricorda? Le camicie botton down che arrivavano da Latina. Andò bene. Nel 1974, con la famiglia, comprammo il negozio dove montavo gli attacchi. Nel '77, con Carlo La Caita, ne fondammo un'altro, sempre a Tivoli: quattrocento metri quadrati, il “Caiman Sport Center”, dai nostri cognomi: La Caita e Mancini. Non ero più il ragazzo di bottega».

Tutto da solo? Mai un ”aiutino”? Via...

«Mai. Rimanemmo pure chiusi per tre mesi perché i negozianti di zona credevano che volessimo aprire un supermercato».

Lei invece aveva altri sogni.

«Nell''80 liquidai il socio. Volevo un negozio a Roma e lo volevo grande. Comprai ”Fabbi Sport” in via Monte
Cervialto. Ai titolari non rendeva».

Lo cambiò?

«Assolutamente no. Insieme a mio fratello, ci misi solo la voglia e l'impegno. I commercianti romani, spesso... ma non lo scriva...».

Ma è una ”mania”: non scriva questo, non scriva
quello...

«...spesso gli basta la casetta al Circeo o al Terminillo. A volte si accontentano. Io no. Lavoravo e lavoro diciotto ore al giorno. Non penso alle case per le vacanze: negozi, solo negozi».

E i concorrenti? Che dicevano?

«Gli pareva impossibile che uno di Tivoli, delle “montagne”, avesse successo.
Mi facevano guerra sui prezzi, sulla distribuzione. Lotta al ”coltello”».


E chi erano?

«I Banchetti, i Gregorini, i Cavalletti». 

Che fine hanno fatto?

«Banchetti sta a Campo Marzio. Gli altri hanno chiuso». 

Vuole dire che li ha distrutti?

«Ma no. È che non hanno cavalcato la tigre dell'abbigliamento sportivo, non avevano voglia ogni mattina di ”incazzarsi” (non scriva ”incazzarsi”), di mettersi in discussione. Io avevo un sogno».

Che la portò a Cisalfa...

«Il negozio di largo Brindisi c'era già. Era dell'Acqua Marcia. Lo rilevammo nel 1988 prendendoci un grosso rischio: un prestito di quattro miliardi dall'allora Banco di Roma. Avevo trentaquattro anni».

Uno va in banca, chiede i soldi e oplà...

«Ci diedero fiducia. Oggi si direbbe: credettero nel business-plan, il progetto. Coi due negozi, a Tivoli e Talenti, eravamo un'azienda solida, che guadagnava. Dopo due anni a largo Brindisi, cominciammo a pensare in grande. Espansione, qualità».

Quanti sono ora i negozi a Roma?

«Aspetti, guardo l'elenco. Uno, due, tre... , quattordici ecco. Questo di largo Brindisi è ancora quello che incassa di più».

Li frequenta, dottor Mancini?

«Non sono dottore. Comunque sì. Vado, senza dire chi sono, per vedere come viene accolto il nostro padrone,
cioè il cliente».

Chi è il cliente medio?

«La famiglia che fa sport. Con Tomba, nello sci, ci fu un'esplosione. L'Italia e il nostro settore dovrebbero fargli un monumento».

E i dipendenti?

«Per quelli storici sono un amico. C'è gente che sta con me dal 1982».

Ne citi uno.

«Ma no, via, per rispetto agli altri». 

Forza...
«Va bene: Massimo Boratto. Cominciò come commesso. Ora è direttore di uno dei punti vendita».

Le qualità del buon commerciante?

«Caparbietà, aggressività, convinzione».

”Cattiveria”?

«Cattivo è una parola pesante. Direi determinato».

Lo sa che dicono tanti ragazzini di Roma? ”Ci vediamo da Cisalfa...”, un punto di ritrovo.

«Lo so. È un grande orgoglio».

Il nuovo sogno?

«Crescere ancora per poter competere con gli altri gruppi europei, per far sì che ce ne sia uno italiano».

L'avventura continua...

«Non direi avventura. È stato tutto molto posato e ragionato. Come lo sarà la prossima mossa».

Ce la dice?

«Per scaramanzia no».

È grossa?

«Molto, direi. Ma questo, per favore!, non lo scriva».

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