Sorrentino: «Il mio urletto di dolore per Roma ferma e ferita»

Sorrentino: «Il mio urletto di dolore per Roma ferma e ferita»
di Simone Canettieri
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Sabato 19 Novembre 2016, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 13 Febbraio, 13:38

Paolo Sorrentino quando si affaccia dalla finestra di casa che dà su piazza Vittorio fatica a trovare angoli onirici di Grande Bellezza («C’è una buca transennata da anni: incredibile», sorride quasi con rassegnazione). E appena lo sguardo del regista premio Oscar si allarga alla Roma da cinque mesi grillina ecco la fotografia di «una città ferma, stanca, moscia, priva di qualsiasi idea di futuro». Questo, continua, «è molto doloroso perché se poi si va in giro per altre città europee si vede l’opposto, ci sono energie che qui sono assenti».

Sorrentino, è quasi scontato parlare di Grande bruttezza?
«Quando si parla della città, anche se vengo ricordato per un film che tratta Roma in maniera astratta, voglio parlare da cittadino: attendiamo con ansia un’amministrazione che abbia un progetto serio su questo luogo».

Lei è il genius loci dell’Esquilino, il quartiere umbertino alle spalle della stazione Termini, diventato simbolo di una globalizzazione violenta che ha aumentato il degrado e l’insicurezza. 
«Piazza Vittorio è una delle piazze più belle d’Italia, ma manca tutto. C’è un problema a monte, quelli che stanno adesso al governo della città che dicono di essere tanto bravi, anche se per me non lo sono, non si stanno ancora muovendo».

È una critica alla sindaca Raggi e al M5S?
«No, non mi va di fare alcuna polemica, la mia non è una protesta, voglio essere costruttivo. Anzi, invito la sindaca qui, in questo quartiere, le potrei fare da Cicerone. I nuovi amministratori, che vengono dal basso, dovrebbero ascoltare i cittadini, le associazioni, chi ha progetti per Roma».

Diceva dell’Esquilino: qual è il problema? 
«È la mancanza di un vero tessuto commerciale, che non sia solo distribuzione all’ingrosso, a favorire le condizioni di degrado. C’è un problema di manutenzione ordinaria, non parlo nemmeno di progetti, e questo favorisce il fatto che allignino tutte le forme di degrado possibile: dallo spaccio alla sporcizia alla ricettazione e anche dove non ci sono crimini c’è il mancato rispetto delle regole».

Serve ancora più forza nei controlli?
«Certo, in alcune zone, come quella dove abito, manca un presidio di sicurezza. Che invece deve essere opprimente».

Sicurezza opprimente, addirittura?
«Sì, deve essere serrato nei confronti dell’illegalità: non basta piazzare due macchine della polizia in piazza».

Quindi ci salveranno le sirene più che la bellezza?
«No, le cose vanno ovviamente di pari passo: il bello aiuta ad aumentare la percezione di sicurezza. Dalla mia finestra vedo una buca che sta sulla piazza da dieci anni. C’è una pista di pattinaggio che quando piove diventa un lago. Servono le minime condizioni di decoro per la manutenzione ordinaria. Davanti al bello e alla pulizia la gente ci pensa due volte prima di fare la pipì per strada. L’altro giorno ha aperto nell’ex cappelleria Venturini un bar molto bello: abbiamo stappato le bottiglie, ma sono iniziative affidate ai singoli».

Di lei c’è una dimensione civica che pochi conoscono. Nel 2014, dopo l’Oscar, l’allora sindaco Marino le conferì la cittadinanza onoraria. Prima e dopo, più volte, è stato avvistato in Campidoglio per parlare del suo quartiere: portando idee e progetti. Come è andata?
«Con Marino ho fatto più incontri. Ottenendo solo risposte flaccide: ci proposero un presidio medico a piazza Vittorio, che sarebbe stato ancora peggio. Penso che Veltroni, invece, fece una cosa strepitosa mandando via il mercato dalla piazza, che era solo un ritrovo di topi e siringhe. Va detto però che la passata amministrazione convocava i comitati e li ascoltava, la nuova invece no».

Insomma, il suo Esquilino può essere la metafora dell’Urbe?
«E’ uno specchio di una città, certo, che non si muove, che è ferma o che in alcuni casi arretra, e davanti a dei soggetti che dicono no a tutto, questo processo sembra inarrestabile».

La globalizzazione, i mercati cinesi prima e ora quelli indiani, hanno cambiato il volto della Capitale. Siamo già in una post-Roma?
«Non lo so: rispondo in maniera pragmatica, in giro ci sono esempi di quartieri, come Monti, che ce l’hanno fatta. Di sicuro un’amministrazione dovrebbe trattare con le comunità straniere per capirne i bisogni ma anche per pensare a uno sviluppo condiviso».

E invece dalla sua finestra cosa vede?
«Una città sopravvissuta a millenni di storia ma offesa e ferita quotidianamente dalla cronaca».

La ventata di novità del M5S si è fermata alle urne?
«Allora, la speranza è l’ultima a morire, e sono abituato a parlare alla fine della storia. Però noto che non è cambiato nulla. Anzi è peggiorato, se l’osservatorio è l’Esquilino. Non vedo un’impronta della nuova amministrazione, c’è una strana forma di continuità nell’assenza di progetto, nonostante le differenze politiche con il passato».

Al di là dei post su Facebook o Twitter, c’è dialogo tra il Campidoglio e i cittadini reali?
«Almeno l’amministrazione precedente ascoltava, ricevevano, ora mi sembra di no: vista la storia del movimento Cinque Stelle che nasce dalla condivisione dal basso questo atteggiamento sembra paradossale».

Dalle sue parti manca il tanto sbandierato «uno vale uno»?
«Qui ci sono state molte associazioni che hanno presentato progetti: una nuova amministrazione dovrebbe avere la curiosità di ascoltare, non si tratta di chissà quali cifre, siamo tutti consapevoli della situazione traballante del Comune».

Allora, invito partito: aspetta la sindaca Raggi per un tour nel suo quartiere?
«Certo, io la inviterei volentieri, di corsa, potrei essere un buon Cicerone. Non voglio fare polemiche, non servono. Il mio è un urletto di dolore».
 

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