Quell’ultima lezione a Lecce, ci manca la voce di Pasolini

di Rosario Coluccia
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Venerdì 30 Ottobre 2015, 20:48 - Ultimo aggiornamento: 31 Ottobre, 09:45
Il 21 ottobre del 1975, a Lecce, nell’aula magna del liceo “Palmieri”, per alcune ore Pier Paolo Pasolini incontrò i docenti che partecipavano a un corso intitolato “Dialetto e scuola”; all’incontro parteciparono inoltre studenti universitari e liceali e anche pubblico vario, tutti richiamati dalla presenza dell’eccezionale conferenziere. C’ero anch’io. Fu quella la penultima apparizione pubblica di Pasolini, che pochi giorni dopo, il 2 novembre, sarebbe stato ucciso all’Idroscalo di Ostia, da persone non tutte identificate, per ragioni che a tanti anni di distanza non appaiono per nulla chiare e che in tanti vorremmo conoscere (speranza vana, ormai! Uno dei tanti misteri irrisolti della nostra storia).



Pasolini esordì con una dichiarazione di modestia: «io non so parlare, non saprei mai fare una conferenza o una lezione»; e continuò citando un verso di Ezra Pound, che propose come titolo dell’incontro: «Volgar’eloquio», la nostra lingua insomma, da ascoltare e da usare con rispetto, da amare. Poi ci fu il dibattito, domande e interventi del pubblico, risposte di Pasolini, bellissime e controcorrente. I dialoghi di quella giornata furono registrati: Gabriella Chiarcossi, cugina di Pasolini, ne passò il testo ad Antonio Piromalli e Domenico Scafoglio perché ne nascesse un libro.



La stampa apparve pochi mesi dopo, nel 1976; e poi dopo ancora, compresa un’edizione nel secondo volume dei “Meridiani” di Mondadori ove sono i Saggi sulla letteratura e sull’arte di Pasolini (1999). Edizioni tutte purtroppo macchiate da qualche svista, errori nei nomi e mancate identificazione degli intervenuti. Ora Lanfranco Piromalli, figlio del curatore del 1976, stampa una nuova edizione di “Volgar’eloquio”, depurata dei refusi e con un bella introduzione. Per una singolare coincidenza, di quelle che a volte accostano cronaca e storia, la nuova edizione viene materialmente alla luce il 21 ottobre 2015, nell’esatta ricorrenza di quella giornata leccese, a quarant’anni di distanza.



Vi sono ripresi tutti i motivi dell’eresia disperata dell’ultimo Pasolini: la rivoluzione antropologica che cambia la società italiana, l’omologazione consumistica, il conformismo dei «nuovi chierici» della sinistra, il «nuovo» fascismo, il tramonto del sottoproletariato, la condizione e il destino della cultura e della lingua delle classi subalterne. Pasolini contesta apertamente il tipo di lingua che vede avanzare, che non è più «quel bel fiorentino letterario che poteva essere un ideale in qualche modo; è l’italiano orrendo della televisione».



Arriva a sostenere l’insegnamento del dialetto nelle scuole, che «dovrebbe diventare profondamente rivoluzionario (qualcosa come è la difesa della propria lingua per i paesi baschi, oppure per gli irlandesi), che deve arrivare al limite del separatismo, che sarebbe una lotta estremamente sana, perché questa lotta per il separatismo non è altro che la difesa di quel pluralismo culturale, che è la realtà di una cultura».



Pasolini non aveva ragione su tutto, nonostante la sua eccezionale capacità profetica. L’italiano «orrendo» della televisione (e non aveva sentito parlare i protagonisti dell’“Isola dei famosi” o del “Grande fratello”!) ha svolto nei decenni passati una funzione a volte positiva; oggi abbiamo capito che Mike Bongiorno (vituperato anche in un saggio famoso di Umberto Eco del 1961) con il suo italiano medio, né troppo alto né troppo basso, fatto di frasi semplici e di parole facili, ha aiutato milioni di italiani di scarsa cultura ad avvicinarsi alla nostra lingua, a saperla usare un po’ meglio. I dialetti costituiscono un bene prezioso, retaggio del nostro passato che deve restare nel patrimonio linguistico delle giovani generazioni. Ma la tutela dei dialetti non può diventare pretesto per operazioni di separatismo e di egoismo economico, come fanno quegli esponenti della “Lega Nord”, che cercano nel dialetto bresciano, o bergamasco o padano (assurdo, i linguisti sanno che non esiste un dialetto padano, né esiste una Padana unitaria) pretesti per discriminare chi quel dialetto non può parlare, per essere nato altrove, in altre regioni d’Italia o all’estero.



Possono esserci punti di dissenso, ci mancherebbe. Ma il libro è affascinante, vi aleggia una libertà di pensiero di cui non si scorge traccia nei dibattiti che inondano i mille canali televisivi (e a volte anche quotidiani e settimanali): dibattiti concentrati sul presente, attenti a scrutare l’espressione del viso di questo o di quel partecipante o a cogliere i pettegolezzi decifrabili dal movimento delle labbra, privi di qualsiasi prospettiva, cicaleccio fine a sé stesso. Mi pongo una domanda senza risposta: cosa avrebbe detto Pasolini di fronte alla cialtroneria, alla volgarità e alla disonestà che caratterizza la vita pubblica dei nostri giorni?



Ai suoi tempi, avrebbe voluto mettere sotto processo la classe politica dominante per scelte culturali sbagliate, lo scrive in sulfuree pagine di “Petrolio”; cosa penserebbe oggi delle finte fatture, delle auto di grossa cilindrata, delle vacanze lussuose, delle ville e degli appartamenti in centro città, degli enormi patrimoni accumulati a spese della collettività da politici e funzionari corrotti? Ho nostalgia di Pasolini, la nostra società avrebbe bisogno della sua voce. Andiamo a rivedere “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, il suo film testamento. In questi giorni lo danno a Lecce, al DB d’essai.