La capitale che insegna il senso della misura

di Franco UNGARO
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Domenica 13 Settembre 2015, 21:47 - Ultimo aggiornamento: 14 Settembre, 21:28
Navetta per l’aeroporto, aereo per Roma, aereo per Sofia, taxi per la stazione dei bus, bus per Plovdiv, taxi per l’albergo. Tanti i mezzi di trasporto e tanti i chilometri da percorrere per raggiungere il piccolo, povero ma interessante festival TheatreAir di Plovdiv in Bulgaria. Qui, a Plovdiv, di ragioni per vantare orgoglio cittadino ne avrebbero a iosa, non fosse altro per la storia millenaria, le lontanissime origini mitologiche che risalgono a Emo e Rodope, i tantissimi pregi e fregi architettonici con la cattedrale San Luigi dei Francesi, le chiese di San Costantino ed Elena, quella di Santa Marina, il monastero di Backovo, le ottocentesche “case di Plovdiv”, i palazzi, i teatri e gli anfiteatri romani, le icone e gli affreschi, i musei, il festival jazz e della letteratura, del folk e del cinema e quello dedicato a Giuseppe Verdi, senza dimenticare i trecentomila e più abitanti. Al titolo di patrimonio Unesco e di ex capitale della Bulgaria, ora ha aggiunto anche quello di capitale europea della cultura 2019. Eppure girando per le strade e incontrando le persone, di orgoglio non si parla mai, non se ne avverte traccia.



I titoli non le fanno perdere la testa e le origini mitiche non si trasformano in propaganda pseudopolitica, restano lì come sorgenti a cui abbeverarsi culturalmente e spiritualmente. Senza autocompiacimenti e presunte supremazie, senza barocchismi e megalomanie. Ciò che invece sorprende è la semplicità dei modi di essere e di fare, una consapevolezza misurata delle proprie e delle altrui capacità, le attitudini e i comportamenti che non nascondono vizi e virtù sotto il velo dell’ipocrisia.

Lo vedi girando fra le vecchie stradine e case di Kapana, il cuore più antico di Plovdiv con il selciato e i marciapiedi ancora sconnessi, case e palazzi fatiscenti, le famiglie rom che non hanno mai abbandonato il centro della città e «non sentono neanche il bisogno di integrarsi», come sottolinea Gina Kafedjian, direttrice, con Viktor Boytchev, del festival. In Kapana si cerca una dimensione diversa del vivere il presente, diversa da quella dei boulevard Knyaz Aleksandar e Rayko Daskalov con le vetrine eleganti e le firme della moda italiana.



Eppure proprio in Kapana sta nascendo il distretto creativo con i caffè all’aperto, le botteghe artigiane, i laboratori per l’infanzia, le gallerie, le start up, i tanti murales sui muri e i bellissimi graffiti sulle saracinesche in una commistione originale e virtuosa di vecchio e nuovo. La parola chiave che hanno scelto per la candidatura non è orgoglio ma Together, una parola semplice, efficace, vicina al sentire comune della gente e agli umori della città. Una parola moderna che riattualizza quella più antica, bulgha, che vuole dire mescolare, unire.



Lo vedi pure dal festival col suo titolo emblematico “Tre sono troppi, due sono troppo pochi” a sottolineare la dimensione del piccolo, il senso di misura ed equilibrio che connota il genius loci. Un festival che fa dialogare artisti bulgari (Ashton Ka, State Puppet Theatre, Igrachka-Plachko Circus, Shade and Fire Theatre Fireter ) e artisti internazionali (Cal y Canto e Rambling Puppets dalla Spagna, l’italianizzato Teodor Borisov con i suoi personaggi felliniani, Mikropodium dall’Ungheria, Company Small Delights dal Belgio).

Fra tutti ha primeggiato una vibrante messinscena del mito di Sisifo interpretato dal giovanissimo attore Stoyan Doichev, probabilmente della stessa età di Albert Camus quando pubblicò nel 1942 “Il mito di Sisifo. Saggio sull’assurdo”.



Virtuoso ed eclettico sino agli estremi, capace di rendere ogni gesto, ogni suono, ogni ombra come sonde lanciate nell’insensatezza della vita in una immedesimazione totale fra l’artista e la sua marionetta-alter ego.

Servono di nuovo taxi, bus, metropolitana, aereo, navetta per tornare a casa ma nella hall dell’aeroporto di Sofia ci sono i volti fotografati di quaranta bambini siriani accolti dalla Bulgaria, la nazione più povera dell’Europa. Raccontano il loro lungo viaggio fatto a piedi e con mezzi di fortuna, raccontano i sogni della loro vita: poter giocare, diventare famosi come Messi oppure semplicemente tornare nella propria casa senza l’incubo della guerra e della miseria.

Franco Ungaro