Costituzione come programma di governo

di Michele DI SCHIENA
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Martedì 5 Gennaio 2016, 09:52

“Non c'è sulla terra un'autorità tanto rispettabile in sé o investita di un diritto così sacro da poter essere lasciata libera di agire senza controllo e di dominare senza ostacoli": in forza di questa convinzione Alexis De Tocqueville, filosofo e sociologo francese dell'Ottocento considerato uno dei massimi studiosi del pensiero liberale, metteva in guardia le democrazie, a partire da quella statunitense, contro il pericolo della "tirannia della maggioranza".

E lo faceva affermando, sulla scia del pensiero politico di Montesquieu fondato sulla "separazione dei poteri", l'esigenza che l'organo legislativo sia composto in modo da rappresentare gli orientamenti della maggioranza senza essere ad essa succube, che il potere esecutivo abbia una responsabile autonomia e che l'ordine giudiziario sia del tutto indipendente dalle altre due funzioni. Un messaggio che ha tragicamente dimostrato tutta la sua validità nelle vicende politiche di quel "secolo breve" segnato anche in Europa dall'affermarsi di disastrose dittature e che si appalesa oggi di scottante attualità nel nostro Paese a fronte della riforma elettorale recentemente varata e di quella costituzionale che dopo il voto definitivo della Camera dovrebbe essere sottoposta al referendum confermativo prevedibilmente nel prossimo autunno.

Il "combinato disposto" di tali riforme altera invero i connotati della nostra Repubblica parlamentare come disegnata dalla Costituzione perché nella sostanza i due provvedimenti ci consegneranno una Camera dei Deputati con una rilevante presenza di "nominati" destinata a diventare un organo di ratifica delle decisioni dell'Esecutivo anche per il sempre più frequente ricorso alla decretazione d'urgenza, un Senato composto da cento nominati con un irrilevante ruolo consultivo e circoscritti poteri legislativi e la riforma del Titolo V della Costituzione che prevede il passaggio all'Esecutivo di competenze esclusive su questioni del governo del territorio privando di importanti poteri le comunità locali.

Ma ciò che più rileva è che con l'Italicum si avrà una Camera dominata dal partito vincente gratificato (sia nel caso che abbia superato il 40% dei voti al primo turno e sia in quello in cui abbia ottenuto con qualsiasi percentuale il maggior numero di consensi al secondo turno) un generoso premio di maggioranza assoluta. C'è quindi un pericolo ben più grave di quello paventato dal filosofo Tocqueville e cioè il rischio che, in questo caso, la "dittatura" sia non della maggioranza ma di "una minoranza" artificiosamente trasformata in maggioranza parlamentare.

Il fatto è che le riforme renziane sembrano in linea con le pressioni in vario modo esercitate dal grande capitalismo finanziario e, in particolare, con la richiesta esplicitamente da esso avanzata per il tramite della Banca statunitense "JP Morgan" (considerata peraltro dal Governo USA responsabile della crisi dei subprime) che col documento del 28 maggio 2013 esortava i Paesi dell'Europa meridionale a liberarsi delle Costituzioni adottate dopo la caduta del Fascismo che presenterebbero le seguenti caratteristiche ritenute "inadatte a favorire la maggiore integrazione dell'area europea": Esecutivi deboli nei confronti dei Parlamenti, Governi centrali deboli nei confronti delle Regioni, tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori e licenza di protestare contro modifiche legislative considerate peggiorative.

E basta pensare alle riforme costituzionali ed elettorale dell'attuale Governo, alla sostanziale eliminazione dell'art. 18 e all'indebolimento di altre tutele previste dallo Statuto del Lavoratori nonché, più in generale, alla logica che guida l'azione dell’Esecutivo, per rendersi conto che la ricetta della JP Morgan sta trovando in Italia piena e rispettosa attuazione.

C'è una parte del Paese che si sente politicamente agli antipodi del renzismo perché considera le sue "riforme" e il suo "modus operandi" sostanzialmente in linea col berlusconismo tanto da apparire una sua edizione riveduta e corretta con la conseguenza che il "Partito della Nazione" appare connaturato alla politica del Presidente del Consiglio e alle naturali inclinazioni della destra berlusconiana come è dimostrato anche dal continuo flusso di adesioni alla maggioranza da parte di consistenti settori di Forza Italia.

Una radicale inconciliabilità politica che è anche la conseguenza di un'incolmabile distanza culturale perché questa parte dell'elettorato non rinviene nel pensiero e nell'operato del segretario del PD alcuna traccia di quella tensione morale che anima la nostra Costituzione per la quale il metodo democratico va riguardato, per dirla con le parole del grande costituzionalista Costantino Mortati, come uno strumento finalizzato anche "a vincere le resistenze del potere economico per dar vita (...) ad una trasformazione di fondo dei rapporti di produzione e di trasformazione del reddito".

Nel vocabolario renziano invero le grandi trasformazioni cedono il passo a misere e improbabili rottamazioni anagrafiche, le elargizioni e i bonus hanno la meglio sulle politiche necessarie per fronteggiare la complessa crisi socio-ambientale di cui parla Papa Francesco, gli slogan "il Paese col mio Governo riparte" e "con me si vince" prendono il posto degli impegni rivolti a promuovere la partecipazione democratica per giungere ad autentiche scelte innovative largamente condivise.

Inequivocabili segni premonitori dicono che lo spettro del "Partito della Nazione", che già sta prendendo corpo, incombe sul futuro del Paese e che occorre perciò mettere insieme quelle forze, quelle espressioni e quelle sensibilità politiche che non si limitano a riconoscersi genericamente nella Costituzione ma sono pronte a scendere in campo per riproporre i principi supremi, i valori, l'idea di democrazia e le direttive del nostro Statuto.

Un impegno quindi che va ben oltre l'appuntamento del referendum confermativo sulle recenti riforme costituzionali che Renzi, come emerge dalla sua conferenza stampa di fine anno, tenta strumentalmente di trasformare in un plebiscito a suo favore in forza della convinzione che allo stato non ci siano concrete e credibili alternative al suo Governo.

Per contrastare l'egemonico "Partito della Nazione" è necessario insomma costruire un pluralistico "Partito della Costituzione" vale a dire un coagulo di forze politiche di diversa matrice culturale accomunate, in questa delicata stagione politica, da una precisa scelta: quella che emerge dal pensiero del Presidente emerito della Corte Costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, che così si esprimeva in una intervista a "la Repubblica" del 16 novembre 2012: "Vorremmo un partito che dicesse: il mio programma è la Costituzione, il ripristino della Costituzione nella vita politica e nella coscienza degli italiani...uguaglianza, libertà, diritti civili senza veti confessionali o ideologici, partiti organizzati democraticamente". La Costituzione insomma come fulcro di un vero e proprio programma di governo e come volano della rinascita morale e sociale del Paese.
Michele Di Schiena