Cugini di Campagna, il debutto a Sanremo

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Dopo 53 anni di onorata carriera, i Cugini di Campagna arrivano per la prima volta a Sanremo e sparigliano le carte: contraddicendo quell’Italia da contrada che guarda alla musica come a un mausoleo, si fanno scrivere il pezzo in gara da La Rappresentante di Lista quasi in un cortocircuito della macchina del tempo; facendo storcere il naso ai puristi rinunciano al falsetto, loro marchio di fabbrica; cantano l’amore sì ma senza l’epos un po’ ridondante dei vecchi successi, in maniera più intima, attraverso una lettera (“Lettera 22” è il titolo). Chiaro no? In quelle cinque sere del Festival non vogliono fare la gondola, il Duomo o il Colosseo un tempo in bella vista sopra la tv. No past, no trash.

Nick Luciani è, tra le sei voci che si sono alternate nel gruppo in questo mezzo secolo, quella di più lungo corso (oltre vent’anni), è lui che ha rinunciato al falsetto ma pare non prendersene gran pena anche perché – anticipa – «verrà fuori nella serata delle cover con il nostro ospite, lì vedrete se non mi scateno…».

Com’è nata l’idea di Sanremo, de LRDL e del brano in gara?

«È stato Amadeus ad invitarci. Forse gli era sembrato strano che in cinquant’anni di carriera non fossimo mai stati in gara al Festival. Poi c’è stato un contatto con Veronica e Dario (Lucchesi e Mangiaracina de LRDL, ndr.): lo so, sembrano due mondi opposti e invece… Veronica aveva questo bel testo, Dario voleva arrangiarlo. In quel momento è nata la sintonia: ci siamo raccontati le nostre storie, abbiamo ascoltato gli uni le canzoni degli altri. La collaborazione è cresciuta così, naturalmente. Noi ci siamo sentiti più motivati, più competitivi sul piano dell’attualità».

Il falsetto però…

«Qualcuno ci rimarrà male, molti però ci hanno scritto dicendo che sono curiosi di vedere l’effetto che fa».

Echi di pop anni ’70, suoni un po’ più moderni: sembra vogliate accontentare un po’ tutti.

«Se la canzone catturasse un pubblico crossover non potremmo che esserne fieri».

Una lettera. Non è un po’ troppo intimista rispetto alla poetica dei Cugini sempre così declamata, stentorea, lirica?

«È comunque una canzone d’amore, attraverso la lettera a un padre. L’amore ha mille forme, questa è solo una».

Sembra incredibile che dal 1970 non abbiate mai trovato un posto in gara a Sanremo. Ci avete mai provato?

«Come no? Accadde proprio nel primo Sanremo di Fazio e Baglioni che ci avevano rilanciati qualche mese prima con la trasmissione “Anima mia”. Il brano era importante, si intitolava “La nostra terra”, aveva le parole di Karol Wojtyla. Niente da fare. Il Papa non era cittadino italiano e dunque per regolamento non poteva concorrere».

Che si aspetta un gruppo di così lunga carriera da Sanremo, adesso? «Intanto la soddisfazione di salire su quel palco, che poca cosa non è. Poi quel che sarà, sarà. Abbiamo sempre lavorato, venduto 50 milioni di dischi nel mondo, fatto ogni anno da 90 a 150 serate, le star internazionali, dagli Abba a Sinatra, ci hanno omaggiato con le cover dei nostri successi, la prima proposta post festival è una data in Spagna. Insomma, dopo 53 anni, mica ci montiamo la testa, abbiamo anche imparato a stare coi piedi per terra».

Mai pensato “adesso basta”?

«Abbiamo attraversato alti e bassi, litigato, fatto pace, ci siamo separati e riuniti, affrontato anche momenti brutti come le malattie, ma “adesso smettiamo” quello no, non lo abbiamo mai pensato».