La guerra eterna tra Armenia e Azerbaijan: cosa sta succedendo nella regione del Caucaso contesa da un secolo

La guerra eterna tra Armenia e Azerbaijan: cosa sta succedendo nella regione del Caucaso contesa da un secolo
di Nico Riva
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Giovedì 8 Ottobre 2020, 14:24

La pandemia, la conseguente crisi economica e l’emergenza climatica dominano i nostri giornali e i nostri social network. Problemi gravi che monopolizzano il dibattito, lasciando poco spazio a tanti altri che meriterebbero attenzione. Ad esempio, la guerra che in meno di due settimane ha già fatto più di 400 vittime e costretto 75mila persone a fuggire dalle proprie case. Armenia e Azerbaijan il 27 settembre hanno riacceso la miccia della loro guerra quasi secolare, fra le più longeve al mondo, nella regione del Nagorno-Karabakh. I due Stati caucasici sono i principali protagonisti di questo teatro bellico, ma dietro le quinte operano ancora una volta la Russia di Vladimir Putin e la Turchia di Recep Tayyip Erdogan. E l’Europa e gli Stati Uniti? Al momento i loro appelli per cessare immediatamente il fuoco son rimasti inascoltati. Mentre i mediatori internazionali si apprestano ad avviare i negoziati di pace a Ginevra, la regione è diventata una polveriera e i suoi abitanti muoiono e fuggono sotto i bombardamenti.

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Domenica 27 settembre, l’Armenia ha dichiarato la legge marziale, mobilitato l’esercito e ordinato ai civili di trovare rifugio. Da allora, si susseguono attacchi via terra e via aerea da entrambe le parti. Sia gli armeni che gli azeri puntano il dito su chi abbia scagliato la prima pietra. Il governo armeno sostiene la legittima difesa dopo un attacco militare da parte dei vicini. L’Azerbaijan rispedisce le accuse al mittente, dichiarando di aver attaccato solo in risposta ad un bombardamento armeno. Il precario equilibrio che vigeva al confine è riesploso con una violenza che non si vedeva da decenni. La rivalità fra i due popoli ha infatti radici antiche, che affondano nel lembo di terra chiamato Nagorno-Karabakh. 

Il Nagorno-Karabakh è una regione montagnosa al confine fra Armenia e Azerbaijan. Sebbene internazionalmente venga riconosciuta come parte del territorio azero, la popolazione della regione è in maggioranza formata da armeni etnici separatisti. Dal 1991, il Nagorno-Karabakh si è autoproclamato indipendente, assumendo poi nel 2017 il nome di Repubblica dell’Artsakh. Ma nemmeno l’Armenia riconosce l’indipendenza della regione, che ospita circa 150mila abitanti.

Per trovare l’origine delle ostilità bisogna fare un salto all’indietro nel tempo fino alla costituzione dell’Unione Sovietica nel primo dopoguerra. Il pomo della discordia è sempre stato il dominio territoriale della regione, ma è bene ricordare anche un elemento etnico-sociale che contribuisce a dividere le due fazioni: la religione. L’Azerbaijan è a maggioranza musulmana, mentre in Armenia domina il Cristianesimo. Quando si trovavano entrambe sotto il controllo dell’URSS, le tensioni fra loro venivano sedate da Mosca. Ma con il crollo dell’Unione e la fine della Guerra Fredda sono esplose senza freni.

Entrambe le fazioni si son macchiate di atti di violenza e pulizia etnica per decenni, ma la guerra vera e propria scoppiò nel gennaio del 1992 e si concluse con un cessate il fuoco nel maggio del 1994, dopo aver causato almeno trentamila morti.

La fine temporanea delle operazioni militari non ha però risolto la questione di fondo. Dal 1994 in poi, attacchi isolati e piccoli scontri non sono mai mancati.

Nel 2018, una rivoluzione nello stato armeno ha portato al potere una nuova leadership, infondendo nuova speranza nella popolazione del Nagorno-Karabakh di vedere una definitiva conclusione al conflitto. Speranze che sono state puntualmente disattese, anche dall’atteggiamento duro del primo ministro armeno Nikol Pashinyan, che il governo azero considera aggressivo e provocatorio. Negli ultimi anni c’erano stati tuttavia dei piccoli passi in avanti nel processo di pacificazione fra le due nazioni contendenti, ma la situazione è nuovamente precipitata. 

Il confine fra Armenia e Azerbaijan resta dunque uno dei luoghi più pericolosi e militarizzati dell’intero pianeta, sottolinea al Guardian Laurence Broers, direttore del programma Caucaso all’interno dell'organizzazione londinese Conciliation Resources. Secondo Broers, la classe dirigente azera avrebbe approfittato della pandemia per riaccendere il conflitto, «conquistare qualche territorio e ricominciare il processo di costruzione della pace da una posizione di forza», ha dichiarato. L’Azerbaijan ufficialmente però sostiene di aver agito in difesa, dopo decenni di aggressioni militari armene in un territorio internazionalmente e legalmente riconosciuto come azero.  

Il conflitto armeno-azero non pone una questione solamente umanitaria, visto che decine di civili innocenti stanno morendo da una parte e dall’altra, ma anche geopolitica. Nello scacchiere internazionale, la zona meridionale del Caucaso gioca un ruolo fondamentale per il mercato mondiale di gas e petrolio: grandi potenze come Russia, Turchia e Iran vi hanno investito ingenti risorse.

Il coinvolgimento militare di altre potenze «rischia di internazionalizzare il conflitto», avverte il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian in Parlamento. In parte, ciò sta già accadendo: la Turchia di Erdogan ha dichiarato il suo supporto all’Azerbaijan, la Russia è alleata con gli armeni (anche se vende armi a entrambi gli Stati). Si ripropone quindi il braccio di ferro fra Mosca e Ankara che abbiamo già visto in Siria e in Libia. E secondo quanto dichiarato al Guardian da diversi combattenti nella provincia siriana di Idlib, la Turchia avrebbe cominciato già da un mese il reclutamento di soldati, una parte dei quali è già scesa al fianco dell’Azerbaijan. Lo afferma anche l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani con base a Londra.

Per questo motivo, lunedì 5 ottobre, gli Stati Uniti, la Francia e la Russia hanno rilasciato una dichiarazione congiunta per chiedere l’immediato cessate il fuoco nella regione. «Il ministro degli Affari Esteri della Federazione Russa Sargey Lavrov, il ministro degli Affari Esteri ed Europei della Francia Jean-Yves Le Drian e il Segretario di Stato degli Stati Uniti d’America Michael R. Pompeo, condannano profondamente l’inedita e pericolosa escalation di violenze all’interno e all’esterno della zona Nagorno Karabakh», si legge nel comunicato. «I recenti attacchi hanno avuto come bersaglio centri civili di entrambe le parti. La sproporzionata natura di questi attacchi costituisce un’inaccettabile minaccia alla stabilità della regione. I ministri richiedono pertanto alle parti belligeranti di accettare un immediato ed incondizionato cessate il fuoco». Durante un recente incontro con il ministro degli Esteri turco ad Ankara, anche il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg si è unito al coro, specificando che «non può esserci una soluzione militare a questo conflitto». Tutti gli appelli al momento restano inascoltati.

Usa, Francia e Russia sono intervenute in qualità di co-presidenti del Gruppo Minsk dell’OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), creato nel 1992 appositamente per trovare una soluzione pacifica al conflitto nella regione del Nagorno-Karabakh. Ma mentre i mediatori internazionali e il ministro degli Esteri dell’Azerbaijan, Jayhun Bayramov si preparano al loro primo incontro ufficiale a Ginevra previsto per giovedì 8 ottobre, la capitale della Repubblica separatista del Nagorno-Karabach, Stepanakert, è diventata una città fantasma.

Bombardata da diversi giorni, la maggior parte della popolazione l’ha abbandonata. Circa 75mila persone (la metà degli abitanti della regione) sono state dislocate. Lo ha dichiarato il difensore civico (o ombudsman) della regione, Artak Beglaryan, mercoledì all’AFP.

«La chiamano già Seconda Guerra del Nagorno-Karabakh», spiega alla testata americana Vox Roya Talibova, azera fuggita da bambina dal primo conflitto, oggi laureata ad Harvard e dottoranda in Scienze Politiche all’Università del Michigan. «Quello che vedo ora mi ricorda quello a cui ho assistito negli anni ’90». L'Eterno Ritorno dell'Uguale, teorizzava il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche: il perpetuarsi della storia, che ripete se stessa e i suoi orrori. Se le trattative di pace dovessero fallire, si arriverebbe così a piangere nuovamente la morte atroce di decine di migliaia di esseri umani. 

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