di Romano Prodi
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Domenica 29 Dicembre 2019, 00:18
Alla fine di dicembre si usa fare il consuntivo dell’anno trascorso e si cerca di prevedere come saranno i prossimi mesi. Dopo tanti anni di quest’esercizio mi sono stancato di riflettere sulle ragioni che ci hanno portato a crescere di un centesimo in più o in meno e sul perché lo scenario non cambierà più di tanto nel prossimo anno. Credo infatti che ci sia bisogno di ragionare sul lungo periodo, di capire perché siamo da troppo tempo la pecora nera della crescita economica mondiale e di fare presente che, se si vuole uscire da una malattia cronica, occorrono medicine amare e, soprattutto, occorre un cambiamento delle regole di vita. 

È inutile negarlo: da quasi 25 anni la nostra vita economica si è distaccata da quella di tutti gli altri grandi paesi mondiali e, nei diciannove anni di questo secolo, non vi è stata alcuna crescita. Nella pur sfortunata storia d’Italia non abbiamo mai avuto un periodo di stagnazione così prolungato. E lo abbiamo avuto in una fase di discreta, anche se rallentata, crescita dell’economia mondiale. 

Per non inondare il lettore di inutili dati mi basta elencare che, in termini reali, negli ultimi dieci anni il Prodotto Interno Lordo Italiano è calato dello 0,3% all’anno, mentre è cresciuto dell’1,3% in Germania e dello 0,9% in Francia.

Se poi vogliamo prendere in considerazione gli addetti all’industria manifatturiera, i nostri lavoratori sono passati dai 4,5 milioni del 2008 ai 3,9 del 2018 mentre, nello stesso arco di tempo, in Germania sono cresciuti da 7,4 a 7,7 milioni. L’Italia è l’unico grande paese europeo che non ha recuperato né sviluppo né addetti dopo la crisi. Al di là di ogni forma di retorica che, anche se con nobili motivazioni, tende a snobbare la crescita del PIL per rifugiarsi dietro a non ancora testati indici di misurazione del benessere, risulta quindi chiaro che se non cresce il Prodotto Interno Lordo non crescono nemmeno gli occupati. Il lavoro, in questo caso, lo si può trovare solo all’estero.

La ragione dell’anomalo comportamento italiano la si deve attribuire al fatto che non abbiamo saputo dare una risposta ai cambiamenti della storia. Il primo cambiamento è quello demografico. Insieme alla Germania e alla Spagna abbiamo il più basso tasso di natalità d’Europa, anche se la Germania mostra qualche segno di crescita negli ultimi due anni. La necessaria risposta a questo problema è duplice: in primo luogo un aiuto alle famiglie con strumenti finanziari e con l’offerta di servizi per i nascituri e per i nati. Servizi che debbono essere certi e duraturi nel tempo. Gli interventi una-tantum non hanno alcun effetto. La seconda risposta riguarda l’età pensionabile: essa, pur prendendo in considerazione le necessarie eccezioni, non può non tenere conto dello straordinario positivo aumento della maggiore durata dell’età media dei nostri concittadini. Non dimentichiamo inoltre che, nonostante un indice di natalità assai inferiore al nostro, il Giappone, per molti anni simbolo di una crisi irreversibile, cresce più di noi, così come la Corea del Sud, che pure si è ormai inserita tra i livelli più bassi della fecondità mondiale. Questi paesi hanno infatti da tempo operato per aumentare l’efficienza non solo del sistema produttivo, ma di tutte le componenti della società, a cominciare dalla pubblica amministrazione. Un aumento che, nel lungo periodo, può essere ottenuto solo con un processo di rinnovamento continuo del sistema scolastico, che deve essere messo in grado di preparare giovani e meno giovani ai cambiamenti della scienza, della tecnica e del lavoro. In fondo le uniche riforme andate in porto della scuola italiana hanno riguardato continui cambiamenti degli esami di maturità e la pur necessaria apertura di concorsi straordinari per gli insegnanti. Tutto questo non tanto per ottenere cambiamenti sostanziali, ma per perseguire risultati immediati e visibili dal punto di vista politico, anche se illusori.

Questo ci porta al terzo ostacolo che si oppone alla nostra ripresa economica: la durata dei governi. Ci siamo spesso illusi che questo non fosse un ostacolo invalicabile, dato che erano di breve durata anche i governi dell’epoca del miracolo italiano. Era invece tutta un’altra storia perché, nella sostanza, si trattava di semplici rimpasti, dopo i quali non cambiava la linea dell’esecutivo e, spesso, non ne cambiavano nemmeno i componenti. I mutamenti di oggi toccano invece le linee fondamentali della politica e generano una continua incertezza perfino sul quadro normativo esistente. Disorientano perciò i nostri investitori, spaventano quelli stranieri e, adottando un’imprevedibile strategia con i paesi europei e con il resto del mondo, rendono più difficile il nostro ruolo nell’economia mondiale. In questo caso il rimedio non può essere che una legge elettorale maggioritaria, progettata non per proteggere gli interessi delle forze politiche temporaneamente più forti, ma per dare stabilità ai governi e alle istituzioni. Alla breve durata dei governi dobbiamo inoltre il quinto ostacolo alla nostra ripresa: la riforma della burocrazia e della giustizia. Anche in questi casi si cerca di incidere sugli aspetti particolari che possono portare visibilità a breve anche a costo di sconvolgere i rapporti economici interni ed esterni al nostro paese, come è recentemente avvenuto nel caso dell’ex-Ilva.

Ben poco, inoltre è stato fatto riguardo alla durata ed alla prevedibilità dei processi sia civili che penali. Il problema del funzionamento della giustizia è addirittura diventato, negli anni, il simbolo dell’inaffidabilità del nostro paese. L’assenza di una più efficace politica industriale è il sesto ostacolo che dobbiamo superare per reinserirci nel club dei paesi capaci di crescere. Abbiamo problemi sia per le piccole che per le grandi aziende. La strage delle imprese minori ha messo in rilievo la loro difficoltà di adeguarsi alle nuove tecnologie e alle regole dei mercati globalizzati. Non ce la fanno proprio più: falliscono o scappano all’estero. Per diminuire i casi di fallimento occorre prima di tutto riprendere e rafforzare le politiche per l’ammodernamento delle strutture produttive e gli incentivi agli investimenti. Queste sono decisioni quasi ovvie ma debbono essere affiancate da due provvedimenti specifici: il primo volto ad incentivare le fusioni fra imprese, in modo da renderle più adeguate ai mercati internazionali, e il secondo per garantire la continuità delle aziende famigliari, che entrano fatalmente in crisi ad ogni passaggio di generazione. Tutto questo per salvaguardare e modernizzare l’esistente: non basta perché adeguare quello che esiste non è sufficiente. Occorre entrare nel nuovo che non ci vede ancora protagonisti, nonostante un nucleo di imprese che ben regge la concorrenza straniera. Abbiamo negli ultimi anni assistito all’aumento, anche se in modo non sufficiente, delle nuove imprese, le così dette start-up. Non abbiamo invece strutture idonee ad assisterle e a farle crescere. Di conseguenza esse o muoiono o emigrano. Non possiamo tuttavia limitarci alle imprese minori.

È ormai una questione di sopravvivenza custodire quelle maggiori che, con una sequenza impressionante, stanno passando in mano straniera senza che quasi nulla avvenga in direzione opposta. Siamo diventati il ventre molle della nuova concorrenza internazionale. Lo shopping straniero ha ormai acquistato non solo le aziende più significative di tanti settori produttivi, dalla moda agli alimentari, dalla meccanica alla chimica, ma si è anche impadronito di una parte consistente del nostro sistema bancario e di una quota dominante di quello finanziario. È inoltre doveroso ricordare che anche la parte rimanente di questi settori è a rischio di essere inglobata dalla tenaglia che vede protagonisti i fondi di investimento internazionali e le organizzazioni bancarie e finanziarie di altri paesi. Non propongo certo la ricostruzione dell’Iri ma ritengo che sia obbligatorio difendere le nostre strutture produttive come fanno gli altri paesi, a partire dalla Francia, che più degli altri è attiva nell’acquisto delle grandi strutture produttive italiane. Abbiamo bisogno cioè di una grande organizzazione che, anche aiutata da un’opportuna decisione sul voto multiplo per gli investitori di lungo periodo, possa conservare una quota di minoranza di alcune imprese necessarie a garantire la sopravvivenza futura del nostro paese. Credo che oggi solo la Cassa Depositi e Prestiti sia lo strumento disponibile per gestire questa necessaria strategia della nostra politica industriale. Lo dovrà ovviamente fare nel rispetto delle regole europee, creando nel suo ambito una nuova struttura, fornita di una profonda cultura e visione industriale di lungo periodo e operante in sinergia con robuste partecipazioni private. Lo dovrà fare urgentemente prima di vederci spogliati delle istituzioni industriali e bancarie che costituiscono la forza di ogni sistema produttivo. I rapidissimi aumenti del costo del lavoro di molti paesi in via di sviluppo (non solo la Cina ma anche di paesi dell’Europa orientale) ci obbligano a ripensare a strumenti per favorire il ritorno di imprese precedentemente emigrate ( il così detto On-Shore). Il costo del lavoro italiano (compreso tutto il cuneo fiscale) è infatti nettamente inferiore non solo a quello tedesco, ma anche a quello francese. Non è cosa di cui dobbiamo gloriarci ma della quale dobbiamo almeno approfittare. Non sono proposte che vengono dalla luna: si tratta delle necessarie decisioni di una politica industriale capace di fare riprendere il cammino a un paese che, con tutti i limiti esposti in precedenza, rimane ancora il secondo paese manifatturiero d’Europa, solo dopo la Germania. 

Al termine di quest’analisi, tenuto conto di tutti i problemi che abbiamo per proteggere adeguatamente l’ambiente e per impedire il definitivo declino del Mezzogiorno, ci si deve chiedere come si possano reperire le risorse necessarie per fare risorgere l’Italia, soprattutto in presenza di un debito pubblico che ci rende difficile ogni aumento di spesa. A parte la considerazione che molte delle misure proposte non comportano costi aggiuntivi, non possiamo non arrivare a tentare di sciogliere il nodo scorsoio che impedisce il respiro della vita italiana: l’evasione fiscale. Ho esaminato tutte le analisi possibili e immaginabili che, pur con qualche piccola differenza quantitativa, concordano nel fatto che il recupero di una sola metà delle imposte evase fornirebbe i mezzi per avviare a soluzione tutti i problemi posti in precedenza. Nessuno è stato finora in grado di prendere di petto questo problema, proprio perché tocca interessi economici e politici che appaiono insormontabili. Qui c’è poco da fare: o si vince questa sfida o l’Italia presto o tardi andrà in fallimento. Ho sempre ritenuto che la democrazia si difenda solo con le ricevute. Oggi queste ricevute sono tecnicamente possibili ed economicamente convenienti. Vogliamo proprio distruggere l’Italia perché riteniamo veramente che la sopravvivenza del nostro paese sia meno importante della quantità di contante che abbiamo in tasca?
 
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