di Vittorio Emanuele Parsi
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Martedì 1 Febbraio 2022, 00:00

Hanno colpito tutti le immagini dei riservisti ucraini richiamati in servizio attivo che si addestravano ai movimenti di plotone armati di fucili in legno compensato. Scene già viste nell’estate del 1940, quando il Regno Unito, rimasto solo a combattere contro la Germania, si preparava all’ipotizzata invasione arruolando così tante truppe che non c’erano Enfield per tutti. In entrambi i casi il messaggio è lo stesso: mostrare la determinazione di un popolo a battersi al di là – e nonostante – le temporanee ristrettezze di materiali. Intendiamoci bene, le guerre si vincono con la logistica e i materiali e, in tal senso, per la Gran Bretagna di Churchill fu decisivo il ruolo dell’”arsenale delle democrazie” come “Winnie” ribattezzò enfaticamente l’America di Roosevelt. E oggi gli Stati Uniti sono altrettanto cruciali nell’approvvigionamento e ammodernamento dell’esercito di Kiev. Ma avere, e mostrare, determinazione è il prerequisito fondamentale per vincere le guerre, magari anche senza doverle combattere: quella che Sun Zu avrebbe definito la miglior vittoria possibile.

Così da Kiev si sottolinea la volontà di resistere, nella speranza che ciò contribuisca a far desistere i russi ma, più sottilmente forse, si rappresenta alla Russia quanto l’Ucraina non possa costituire una minaccia credibile per la sua sicurezza e all’Occidente quanto ancora le forze armate ucraine abbiano bisogno di assistenza materiale. Un cortocircuito di messaggi contraddittori? No. Segnali diversi, rivolti a governi e opinioni pubbliche, che vorrebbero tutti concorrere a modificare la percezione del bilancio tra costi e benefici, tra opportunità e rischi, così da uscire dall’attuale impasse e allontanare lo spettro di una guerra. Escalation o de-escalation sono entrambi scenari compatibili con la situazione attuale. La Nato rinforza la sua presenza a Est ma dichiara esplicitamente, che non invierà truppe in Ucraina neppure in caso di invasione da parte russa. L’Ucraina mostra determinazione ma contemporaneamente sostiene che un’invasione non sia imminente.

L’America minaccia durissime sanzioni e ribadisce i suoi principi ma resta disponibile per un accordo più complessivo con i russi sul dislocamento/ritiro bilaterale di missili dall’Europa orientale. Francia e Germania, con l’appoggio anche italiano e in stretto coordinamento con la Ue, cercano una rotta che lasci aperto il dialogo e non schiacci l’Europa sulle posizioni di Washington (peraltro non sempre lineari) ma non illuda Putin di poter contare su divisioni occidentali. Persino dei russi siamo pressoché certi che ritengano l’azione militare l’ultima delle frecce al loro arco, mentre ribadiscono le proprie “legittime preoccupazioni” di fronte all’allargamento e potenziamento della Nato. Insomma, anche loro vorrebbero “vincere la guerra senza combatterla”: e a chi non piacerebbe del resto.

La “narrazione”, come si definisce oggi, il modo in cui si presentano e si dispongono fatti, informazioni, intendimenti, fa parte a tutti gli effetti della strategia: prima, durante e dopo un conflitto. Concorre persino a determinarne l’esito e, senza dubbio, a fornire l’interpretazione della sua lettura, talvolta con effetti rocamboleschi: dall’Italia del 1919, che si autocollocò tra i “perdenti della pace” a causa dell’autoinganno della “vittoria mutilata”, a Saddam Hussein, che nel 1991 si proclama vincitore per aver “osato opporsi” alla coalizione che aveva appena liberato il Kuwait e sconfitto l’Iraq. I soldati con i loro fucili di legno, il caleidoscopio di significati che quelle immagini producono, potrebbero così costituire un elemento importante di comunicazione e persuasione nei confronti dei decisori e delle opinioni pubbliche di “amici e nemici”: sempre ricordando che fino all’ultimo istante le diplomazie sono ostinatamente al lavoro per scongiurare una guerra che nessuno davvero vuole, che tutti vorrebbero vincere senza combattere e che comunque nessuno vuol perdere.
 

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