di Francesco Grillo
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Domenica 3 Gennaio 2021, 00:47 - Ultimo aggiornamento: 00:48

«I computer sono dovunque tranne che nelle statistiche della produttività». A scriverlo fu – proprio nell’anno in cui vinse il Premio Nobel – quello che è stato l’ultimo dei grandi economisti del Novecento. Robert Solow – che a 96 anni si diverte, ancora, ad insegnare al Mit di Boston – fu quello che fornì la migliore spiegazione di cosa fa progredire o declinare le nazioni. È la conoscenza posseduta da una società che fa tutta la differenza e la “digitalizzazione” è un acceleratore di progresso, solo se fa scelte intelligenti e pragmatiche: è questa la lezione che dovrebbe precedere qualsiasi tentativo di scrivere il primo capitolo che il “Recovery Plan” (Pnrr) dedica all’innovazione tecnologica.

Quasi la metà dei 48 miliardi del programma del Governo per digitalizzare il Paese sono, invece, concentrati, su un singolo progetto che, semplicemente, estende crediti d’imposta che incoraggiano le imprese a fare investimenti in beni materiali e immateriali, riproponendo una legge il cui impianto risale ad una proposta fatta, per la prima volta, nel 1965 dal deputato democristiano Armando Sabatini. Si fa, francamente, fatica a capire come si possa concepire una strategia che contenga scelte nette (ed elementi di distruzione creativa, come direbbe Schumpeter) con incentivi che arrivano a tutti quelli che riescono a presentare una pratica sviluppata dal proprio commercialista. 

Sorprende, semmai, che la stessa identica critica costruttiva al Recovery plan, arrivi da un documento ufficiale dello stesso Partito Democratico.

Perplessità viene sollevata anche dall’idea di realizzare una Cashless Society finanziando, con ben 5 miliardi, la ripetizione delle lotterie di dicembre (laddove, in realtà è la stessa Banca Centrale Europea a esprimere scetticismo nelle opinioni firmate da Christine Largarde); o, ancora, che la riforma della Pa possa essere, finalmente, portata a compimento informatizzando processi che, invece, vanno radicalmente ridisegnati e, in alcuni casi, aboliti.

Il documento non coglie, infine, l’opportunità di chiarire la strategia e completare l’unico investimento – quello sulla rete – che, sicuramente, spetta allo Stato e che, finora, ha funzionato. È triplicato negli ultimi 4 anni il numero di abitazioni con una connessione di almeno 100 Mb e, però, sono ancora meno di un terzo quelle raggiunte dalla fibra: rispondere a quello che è, fuori dalle città, un fallimento di mercato significa attrezzarsi per cogliere quella possibilità del “lavoro da casa” che la pandemia ha svelato e di cui il Piano parla senza averne studiato effetti non ovvi.

Tre sono le scelte che sono indispensabili per disegnare una strategia di modernizzazione sufficientemente visionaria e, finalmente, pragmatica.

Innanzitutto, i progetti sulle tecnologie vanno pensati come funzionali a quelli delle altre “missioni” del Piano (ambiente, sanità...) e organizzati per problemi da risolvere (ed è questo approccio che sta facendo vincere l’Asia). È vero che sono pochi i cittadini che usano servizi digitali e che questo “divide” è definito dall’età.

Ma allora va incoraggiata la nascita di imprese giovani che sviluppino interfacce e linguaggi per anziani (i Comuni di Lucca, Novara, Caserta stanno sperimentando tali forme di innovazione sociale) correggendo una mancanza di immaginazione del mercato stesso. Il Piano sceglie, invece, di finanziare servizi civili senza chiarire come possano sopravvivere alla fine del sussidio pubblico.

In secondo luogo, spostiamo – soprattutto sul digitale – le risorse dal “fondo perduto” a Fondi Chiusi (Invitalia ne ha appena lanciato uno dedicato al Sud) nei quali rischino, con lo Stato, operatori privati specializzati per settore: spenderemmo più velocemente le risorse pubbliche; le aumenteremmo con l’investimento privato; facendole tornare quando le partecipazioni sono dismesse per ridurre il debito. Tutti gli investimenti sulla modernizzazione di un’agricoltura e di un’offerta turistica sedute, da anni, su vantaggi competitivi non sfruttati, devono passare attraverso politiche capaci di sottrarre al nanismo endemico, start-up che rimangono tali per sempre.

Infine, la responsabilità. A prescindere dalla scelta di cui si dibatte tra task force e ministeri e il sensato appello del Commissario Gentiloni a procedure accelerate, il punto fondamentale è che chiunque si occupi di disegno e esecuzione del Recovery Plan leghi il proprio stipendio e la propria carriera agli esiti del pezzo di Piano di cui ha la responsabilità. Se questa è la battaglia decisiva, va ricordato che persino un generale come Cadorna fu sostituito da Diaz dopo Caporetto. L’amministrazione pubblica ha, invece, conosciuto fallimenti (e qualche successo) in serie che, neppure, hanno scalfito l’assoluta invarianza delle parti variabili degli stipendi dei dirigenti. Questo è successo, ad esempio, sui fondi strutturali e, a questo proposito vale la pena di aggiungere un’ultima raccomandazione: che ci sia sulle politiche di trasformazione dell’Italia un’unica strategia e non decine di programmi distinti per fonte di finanziamento.

Il bivio al quale siamo arrivati è decisivo. Da una parte Next Generation Eu e la possibilità di usare l’investimento pubblico per dare spazio ad una generazione che già è europea e che ha pagato – per intero – il costo di tre crisi violente. Dall’altra Old Generation Italy e il pericolo che, stavolta, non perdiamo solo l’ennesima occasione ma che danneggiamo quelli che hanno già perso un anno scolastico, scaricandogli addosso il debito velenoso che il Marshall Plan europeo comunque genera salvando una classe dirigente – politica e imprenditoriale – che, già, prima della pandemia era fuori dal tempo.

Paradossalmente tocca ad un governo nato dal successo di un movimento votato, soprattutto, dai giovani, fare la scelta che definisce l’anno appena cominciato e che nessun rimpasto può rimandare.
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