di Luca Bianchi
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Venerdì 18 Dicembre 2020, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 23:45

Il dibattito sull’attuazione italiana del piano Next Generation Ue si sta sempre più complicando, spostando il conflitto dal piano strettamente politico a quello istituzionale. Alle fibrillazioni interne alla maggioranza si aggiungono le tensioni tra le Regioni meridionali e il Governo. I Presidenti delle Regioni del Sud criticano aspramente il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza denunciando un vero e proprio “furto” ai danni del Sud. Questi i termini della denuncia, non priva di ragioni, delle regioni meridionali: l’Europa ha destinato al nostro Paese la quota più alta di risorse, circa 200 miliardi di cui 65 in grants, in considerazione degli ampi divari dalle medie europee (sia in termini di Pil pro capite che di tasso di disoccupazione), dovuti principalmente al ritardo delle regioni meridionali, mentre la ripartizione territoriale del nostro Piano sembrerebbe seguire il criterio della popolazione La critica si basa sugli unici “numeri” resi noti sulle stime di impatto degli investimenti sul Pil del Mezzogiorno alle quali si perviene ipotizzando che all’area, in aggiunta alle risorse della politica di coesione, venga destinata una quota dei 200 miliardi proporzionale alla sua popolazione, applicando la quota al Sud del 34%.

Una simile regola di riparto sarebbe un errore grave perché tradirebbe proprio il principale degli obiettivi del piano Next Generation Ue che è quello di favorire un processo di ripresa dell’economia nazionale che non si limiti alla manutenzione del già debole sistema economico (il più lento d’Europa da oltre un ventennio) ma che sia in grado di attivare le nuove potenzialità derivanti da un processo di sviluppo più sostenibile sul piano sociale, generazionale e ambientale. E che quindi coniughi i due obiettivi di crescita nazionale ed equità territoriale, profondamente interdipendenti.

Come spesso avviene nelle polemiche tra Regioni e Stato centrale: la domanda di chiarimento al governo è dunque ben posta, ma la risposta che si propone appare ancora incompleta e non priva di rischi. La richiesta di ripartire le risorse italiane tra regioni impiegando lo stesso algoritmo impiegato dall’Europa per distribuire le risorse europee tra Paesi rischia di attivare pretese “localiste” che sviliscono il carattere di profonda interdipendenza tra territori. Con il rischio di alimentare, anche per il Recovery Fund, le aspettative di una “titolarità” regionale delle risorse che ha già mostrato i suoi fallimenti nell’attuazione delle politiche di coesione. Soprattutto, si perde di vista il “mandato” europeo che delega alla politica nazionale il compito di disegnare un piano unitario di investimenti, evidentemente legato ai fabbisogni dei suoi territori più in difficoltà.

Non basta sollecitare la discussione sulla quantità ex ante delle risorse destinate ai singoli territori. Perché sarà dai progetti che verranno finanziati per ciascuna missione, e dalla capacità di attuarli, che dipenderà poi l’effettiva spesa che si scaricherà sui territori. 
Il Governo andrebbe sollecitato sulla coerenza del disegno del Pnrr con la sua articolazione in missioni, rispetto all’obiettivo di aumentare la coesione sociale e di attivare il potenziale di crescita dei territori. 

La logica che sembra emergere dal Piano del Governo, sia pur in assenza di elementi di dettaglio, sembra invece derivare prevalentemente dalla disponibilità di progetti e dalla capacità di spesa delle amministrazioni responsabili delle varie missioni. 

Appare infatti difficilmente comprensibile, soprattutto alla luce di quanto accaduto in questi mesi, il sottodimensionamento delle missioni Sanità ed Istruzione, con il rischio di far perdere l’opportunità unica di colmare il divario nei diritti di cittadinanza tra i territori.

Come appare mancante un’adeguata considerazione del ruolo dei grandi agglomerati urbani e in particolare di Roma Capitale. 

Le Città sono infatti i luoghi in cui si concentrano le nuove disuguaglianze causate dalla pandemia ma che, allo stesso tempo, rappresentano i luoghi ideali di sperimentazione di un nuovo modello di sviluppo sostenibile basato sulla transizione verde e digitale.

Il dibattito aperto dalle Regioni meridionali mette al centro l’esigenza di aprire una discussione nel Paese che parta dalle diverse potenzialità e fabbisogni dei territori (regioni, città aree interne) per valorizzarne le interconnessioni, superando gli steccati amministrativi. 

Il Paese si trova dunque di fronte all’occasione irripetibile di avviare la sua «ricostruzione» coniugando crescita nazionale e coesione territoriale, con la possibilità di gestire la transizione al «dopo» orientando i processi economici verso una maggiore sostenibilità intergenerazionale, ambientale e sociale. 

Solo da una «visione» d’insieme di questo tipo, centrata sulle due questioni dell’interdipendenza tra territori e della connotazione nazionale che ormai ha assunto la coesione territoriale nel nostro Paese, potrà seguire un’effettiva valorizzazione del contributo alla ripartenza del potenziale presente nelle regioni del Sud e negli altri territori in ritardo di sviluppo dove più forti sono i ritardi nella dotazione di infrastrutture e nell’offerta di servizi da colmare; solo così la crescita nazionale potrà andare di pari passo con l’equità sociale e territoriale.
 

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