di Paolo Balduzzi
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Mercoledì 27 Gennaio 2021, 00:10

Se volessimo giocare con le parole, potremmo affermare che con le dimissioni di Conte presentate ieri al Quirinale si è ufficialmente aperta la “crisi pilotata più al buio” della storia. In altri termini, l’ottimismo dimostrato dal presidente del Consiglio uscente, che conta di riavere l’incarico alla fine delle consultazioni, non appare affatto giustificato. Sia per questioni meramente numeriche, sia - e soprattutto - per questioni politiche. 

Le questioni numeriche sono facili da esporre e da comprendere: Conte non ha la maggioranza assoluta al Senato.

Lo provano le ultime votazioni di fiducia incassate proprio dal governo: nato con 169 voti a favore al Senato nel settembre 2019, negli ultimi sei mesi non è mai andato sopra quota 159 (luglio 2020), anche quando “Italia Viva” era ancora parte del Governo. E, naturalmente, lo prova l’aver voluto evitare - o perlomeno depotenziare - la votazione sulla relazione del ministro della Giustizia Bonafede, prevista per questa settimana. L’aspetto cruciale, tuttavia, è che ancora non si comprende, né intravede, il progetto politico che dovrebbe sostenere un eventuale Conte ter. Inutile in questa sede vagliare tutte le possibili carte in mano ai giocatori. 

Ciò che invece interessa di più rilevare è che questa crisi comporterà ulteriori ritardi rispetto a quelli - già gravi - che il nostro Paese ha accumulato in questi mesi. Ritardi sulla presentazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, sulla somministrazione delle vaccinazioni, sulle riforme più urgenti che servirebbero al nostro Paese; ritardi perfino sull’ordinaria amministrazione. Sono ritardi che non possiamo più permetterci. 

A cosa si deve questa situazione, già critica prima che la mossa di Renzi facesse precipitare tutto? Forse all’eterogeneità di un progetto politico nato, senza nemmeno troppo nasconderlo, più per tenere le forze populiste e antieuropeiste lontano dal potere che per portare avanti un programma condiviso e di lungo respiro. O forse anche per l’indubbia inesperienza del personale politico di questa legislatura, scaraventato senza formazione, né politica né amministrativa, in Parlamento o al Governo. 

Che tra una settimana avremo un nuovo Governo è una scommessa che pochi si sentono di accettare: che spinta e che progettualità potrà avere un esecutivo dimissionario e dai giorni contati? La verità è che da quando l’Europa ha finalmente cominciato a fare l’Europa come l’abbiamo sempre desiderata, l’Italia ha ricominciato a fare l’Italia come i nostri detrattori l’hanno sempre descritta. Un Paese instabile (68 governi in 75 anni di Repubblica), dove l’allentamento della disciplina di bilancio è utilizzato prevalentemente per finalità elettorali e dove la logica di Palazzo ignora i problemi reali fuori dallo stesso. 

Basti pensare ai fondi europei: Mes e Recovery Fund potevano essere pietre angolari della ricostruzione di un Paese devastato dalla pandemia sanitaria ed economica. Sono diventati strumenti di regolamento di conti interno alla stessa maggioranza. O al discorso della settimana scorsa del presidente del Consiglio alle Camere, in cui brilla per la sua stonatura il riferimento alla riforma elettorale: probabilmente l’ultima tra le cose che davvero servono oggi all’Italia. 

Come giudicare quindi i 509 giorni del secondo governo Conte? Onestamente è difficile rispondere senza considerare che la pandemia ne ha sicuramente condizionato l’azione e assorbito parecchie risorse - di tempo, di denaro e umane - per la sua gestione. Tuttavia, sarebbe miope accettare a cuor leggero un’attività di governo che gestisca solo il presente, dimenticando di prepararsi a ciò che succederà dopo. Per esempio: alla necessità di riforme strutturali, una necessità che non nasce con il Covid-19 ma almeno 25 anni fa, il governo Conte II ha risposto come aveva risposto il governo Conte I e altri prima di questi, vale a dire con misure estemporanee. 

La legge di bilancio per il 2021, che per spazi di manovra e per risorse a disposizione poteva essere lo strumento di rilancio più importante del dopoguerra, è un elenco infinito di bonus, di crediti d’imposta e di contributi straordinari: per occhiali, tv digitali, abbonamenti, pubblicità, edilizia, verde, bebè, rubinetti, e così via. Ci sono risorse, e questa è una buona notizia, per la riforma del sistema tributario. A partire però dal 2022. E con lo spettro che un cambio di maggioranza o la fine della legislatura mandino a monte il progetto di riforma che sta prendendo corpo, lentamente e faticosamente, in Parlamento. 

Passeremo le prossime settimane a leggere e valutare vincitori e vinti di questa battaglia: vincitori saranno Salvini e Meloni se si andrà a votare; vincitore sarà Berlusconi qualora venisse coinvolto in un governo di unità nazionale; vincitore sarà Renzi se Conte venisse sostituito; vincitore sarà infine quest’ultimo se, al contrario, riuscirà a dare vita a un nuovo Governo. Ma questi commenti e queste valutazioni tradiscono, ancora una volta, la solita visione puramente elettorale. 

Da un altro punto di vista, le parti contrapposte sono in realtà i professionisti della politica da un lato e i cittadini dall’altro. In questo senso, i vincitori sono allora coloro che manterranno, nonostante tutto, le proprie rendite di posizione; mentre i vinti, tristemente, sono tutti gli altri: chi ha chiuso la propria attività per ristori tardivi e insufficienti, chi perderà il lavoro quando finirà il divieto di licenziare, chi si ritroverà senza un reddito quando finiranno i soldi della cassa integrazione, chi è morto per la sottovalutazione della seconda ondata da parte della politica.

Il prezzo di questa crisi e i costi dei suoi ritardi saranno quindi pagati, ancora una volta, da chi ha come unica colpa quella di continuare a fidarsi di una classe politica da troppo tempo non all’altezza del nostro meraviglioso Paese. E l’unico modo per evitare che il prezzo sia troppo alto è ridurre al massimo i tempi di questo interregno. Che si faccia presto, insomma. E che un nuovo governo recuperi, per quello che può, il tempo perduto.
 

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