di Alessandro Campi
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Sabato 20 Febbraio 2021, 00:29 - Ultimo aggiornamento: 00:30

Nel suo intervento di ieri alla cerimonia d’inaugurazione dell’anno giudiziario 2021 della Corte dei Conti, Mario Draghi ha nuovamente parlato, dopo averlo già fatto durante il suo discorso alle Camere per la fiducia, della necessità di riformare (ai diversi livelli) la macchina amministrativa pubblica: il sistema nervoso che fa funzionare ogni Stato e che nel caso di quello italiano ha un urgente bisogno (ma lo diciamo da anni…) di essere resa più moderna, efficiente e funzionale.

Un apparato burocratico che si limita ad applicare in modo formalistico la massa enorme di leggi e regolamenti che ne determinano la vita interna e i rapporti col mondo esterno, ha detto Draghi parlando dinnanzi al Senato, non è affatto una garanzia di trasparenza ed equità.

L’eccesso di adempimenti e procedure cui sono tenuti i cittadini e le imprese rischia, al contrario, di produrre discrezionalità e di alimentare la corruzione. Se ne deduce che la semplificazione dei procedimenti amministrativi – indicata come un obiettivo al quale dedicare ogni sforzo nell’immediato futuro – «serve per snellire e accelerare i processi decisionali pubblici». Considerando anche che «proprio le farraginosità degli iter e la moltiplicazione dei passaggi burocratici spesso sono la causa inaccettabile di ritardi amministrativi ma anche il terreno fertile in cui si annidano e prosperano i fenomeni illeciti».

Ieri, parlando dinnanzi ai vertici della magistratura contabile, Draghi ha invece posto l’attenzione sul ruolo e l’attività dei funzionari pubblici: da rimotivare sul piano professionale, da riqualificare sul piano delle competenze (a partire da quelle digitali oggi indispensabili) e da restituire alle loro specifiche responsabilità. 

Su quest’ultimo terreno, il problema più grande col quale fare i conti – come l’ha definita efficacemente il neo-presidente del Consiglio – è la “fuga dalla firma”. Sui dirigenti e funzionari pubblici, infatti, non si scarica solo un eccesso di norme spesso incomplete e contraddittorie (il che determina ritardi nello svolgimento delle procedure e nella assunzione delle decisioni): c’è anche da considerare la minaccia in sé paralizzante di essere chiamati a rispondere penalmente o in via amministrativa delle azioni svolte nell’esercizio del proprio ufficio anche solo per un semplice errore formale. Una burocrazia che per tutelarsi da un simile rischio rinuncia alle proprie funzioni primarie e alle proprie responsabilità finisce naturalmente per accrescere la sfiducia dei cittadini nei confronti dello Stato, senza considerare il danno al (buon) funzionamento di quest’ultimo.

Dopo la lotta alla pandemia, quella alle lentezze e alle deviazioni patologiche della nostra burocrazia sembra dunque l’obiettivo più urgente e ambizioso che il nuovo governo si è dato, tenuto conto che nessuna riforma, tra le tante annunciate e promesse, potrà realizzarsi in modo efficace senza una struttura amministrativa pubblica in grado di applicarla e renderla pienamente operativa. Si tratta, al tempo stesso, di semplificare e modernizzare, operando tutti gli investimenti e i cambiamenti necessari: l’unico modo per rispondere alle attese di un Paese immobile da troppi anni e per tornare ad essere competitivi a livello internazionale.
Resta naturalmente da capire - e sarà questa la vera scommessa del governo Draghi – lungo quale strada, al di là degli auspici e delle buone intenzioni, ci si incamminerà, visto che sulla diagnosi dei mali esiste da anni un vasto consenso (soprattutto tra gli studiosi) e considerati i fallimenti di tutti i tentativi sin qui fatti per ridare slancio operativo al nostro apparato burocratico.

Il cui cattivo funzionamento dipende certo da fattori interni: ad esempio un eccesso di autoreferenzialità e di spirito di corpo soprattutto nell’alta dirigenza; oppure l’esistenza, anche nei rami bassi dell’amministrazione, di intrecci talvolta impropri con la sfera politico-partitica a scapito dell’imparzialità. Ma in buona parte esso è causato anche da chi ha nelle proprie mani il potere di formazione della legge: il Parlamento e, in misura crescente, lo stesso Governo. Se cattive norme producono una pessima amministrazione la colpa è infatti del Legislatore, che evidentemente traduce male in forma scritta la sua volontà, cambia troppo facilmente idea o, più semplicemente, spesso non sa cosa vuole. 

Cosa può inoltre fare un funzionario pubblico, anche il più motivato e competente, se non rimboccarsi eroicamente le maniche quando si trova dinnanzi a commi, regolamenti, disposizioni, norme attuative e circolari contraddittorie tra loro e provenienti per di più dalle autorità più diverse? 

Parliamo di una tendenza tutta italiana all’ipertrofia normativa che ha ragioni al tempo stesso ideologiche e strumentali: da un lato agisce la pretesa, tipica della mentalità dirigista, formalista e statalista, a regolamentare e sottoporre a controllo ogni aspetto della vita sociale; dall’altro opera nei partiti la consapevolezza che produrre norme volutamente complesse rende queste ultime più facilmente aggirabili o interpretabili in modo discrezionale.
Ma ci sono altri nodi, specificamente italiani, che contribuiscono al cattivo funzionamento del nostro apparato pubblico-burocratico e che bisognerà avere il coraggio (eminentemente politico) di affrontare. Ad esempio, il fatto che in materia di appalti e opere pubbliche – settore decisivo ai fini della ripresa produttiva – siano sempre più spesso i giudici ad avere il potere di “ultima parola” riguardo la regolarità delle procedure e la natura stessa degli interventi. L’obiettivo della lotta alla corruzione è naturalmente inderogabile in un Paese storicamente afflitto da forme d’illegalità diffusa, ma è anche vero che un eccesso di controllo sull’attività amministrativa secondo criteri spesso formalistici rischia oggettivamente di causare rallentamenti e blocchi penalizzanti per le imprese e, indirettamente, per i cittadini. Oltre al dubbio che quest’eccesso di controllo, come dimostra l’esperienza di questi anni, non sempre riesca a portare a galla le grandi reti di corruzione organizzata.

Ma la vera sfida (un processo inevitabilmente lungo) sarà radicare nella nostra burocrazia una vera cultura del “servizio pubblico”: il cittadino (e le imprese) prima di tutto. Un cambio di mentalità e di atteggiamento – nel segno della meritocrazia, della formazione permanente, di un’effettiva indipendenza dalla politica - che richiederà, accanto all’adozione di nuovi modelli gestionali e organizzativi, anche un cambio generazionale, l’innesto cioè di nuove, più motivate e più qualificate energie nei ranghi del nostro apparato amministrativo.
Per provare a raggiungere questi obiettivi potremo contare sulle risorse finanziarie che ci arriveranno dall’Europa, che da tempo ci sprona a innovare il nostro sistema burocratico. Che per farlo bastino un paio d’anni e la frustra di Draghi, lo capiremo presto e comunque meglio non farsi, anche stavolta, troppe illusioni.
 

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